FEMMINICIDIO

domenica 12 febbraio 2012

Più di 120 donne uccise dai partner, in Italia è femminicidio

Articolo di Angela Gennaro



Le vittime di omicidio da parte di partner o ex partner sono passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010. Molte violenze non vengono neppure denunciate, per quello che è ancora il contesto italiano, «patriarcale e incentrato sulla famiglia». E un triste primato tutto italiano è quello di vedersi affibbiata in un documento ufficiale delle Nazioni Unite la parola «femminicidio». In questo lo Stivale è insieme al Messico, condannato nel 2009 dalla Corte interamericana per i diritti umani per il femminicidio di Ciudad Juarez.

In contemporanea in diverse città d’Italia, nei giorni scorsi sono state accese migliaia di fiaccole per ricordare Stefania Noce. Uccisa da un uomo che dice di aver amato «più della sua vita». Luci e fiamme per lei e per tutte le donne vittime di violenza, volute da «Se non ora quando» di Catania, da tutta Snoq e da tante associazioni e organizzazioni politiche. In tutto il mondo, la violenza maschile è la prima causa di morte per le donne: in Italia sono aumentate del 6,7% nel 2010. La violenza di compagni, mariti, o ex è la prima causa di morte per le donne dai 15 ai 44 anni. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese», ha detto la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, al termine della sua visita ufficiale in Italia.

Le vittime di omicidio da parte di partner o ex partner sono passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010. Molte violenze non vengono neppure denunciate, per quello che è ancora il contesto italiano, «patriarcale e incentrato sulla famiglia». Vi è di più: capita ancora che la violenza domestica non venga percepita come reato. E «un quadro giuridico frammentario e l’inadeguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle vittime sono fattori che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema».

L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne firmato a Istanbul lo scorso maggio da 10 stati europei. La piattaforma italiana «Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW», D.I.Re (Donne in Rete contro la violenza), e l’UDI (Unione Donne italiane), ne chiedono in questi giorni l’immediata ratifica. E un triste primato tutto italiano è quello di vedersi affibbiata in un documento ufficiale delle Nazioni Unite la parola «femminicidio». In questo lo Stivale è insieme al Messico, condannato nel 2009 dalla Corte interamericana per i diritti umani per il femminicidio di Ciudad Juarez. Una storia della quale si parla poco e dai confini ancora troppo incerti: centinaia di donne, più di 500, violentate e uccise nella totale indifferenza delle autorità dal 1993. E altrettante sarebbero scomparse. Donne, ragazze e bambine (bambine) uccise ma prima sequestrate, torturate, mutilate, violentate (ed è un eufemismo) nello Stato di Chihuahua. I cadaveri straziati – nei corpi ancora in vita inseriti oggetti a beneficio di giochi erotici (anche questo è un eufemismo) mortali – buttati nella monnezza, o sciolti nell’acido. Secondo alcune denunce, si sarebbero macchiati di questi crimini anche uomini delle forze dell’ordine. Ma tanto, nonostante l’aumento della violenza contro le donne, il dibattito politico in paesi come il Messico e il Guatemala continua secondo molti osservatori ad archiviare tutti questi orrori come un danno collaterale della grande guerra del narcotraffico.

Nel 1985 l’Italia ha ratificato la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’79, impegnandosi ad adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico che privato». Il monitoraggio dei risultati avviene ogni quattro anni. Gli Stati firmatari presentano un rapporto governativo con tutti gli interventi portati avanti per raggiungere i risultati richiesti dalla Cedaw. Oltre al rapporto governativo, in parallelo e autonomamente anche la società civile redige un proprio rapporto, il «Rapporto Ombra». Il Comitato Cedaw, composto da 23 esperti provenienti da tutto il mondo, eletti dagli Stati firmatari, esamina entrambi i rapporti e formula le proprie raccomandazioni allo Stato, che è tenuto a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle donne nella società e a risponderne negli anni successivi.

L’organismo delle Nazioni Unite ora ha chiesto all’Italia un aggiornamento entro due anni (invece dei canonici quattro) sulle misure adottate. Le ultime raccomandazioni fatte al nostro Paese, pubblicate il 3 agosto, sono state finalmente pubblicate sul sito delle Pari Opportunità in lingua italiana solo in questi giorni. Tra quattro anni sarà la volta di un nuovo rapporto periodico, il settimo da quando esiste la Convenzione. Nelle raccomandazioni del 2011, il Comitato Cedaw ha accolto con favore l’adozione della legge del 2009 che introduce il reato di stalking in Italia, «il Piano di Azione Nazionale per Combattere la Violenza nei confronti delle donne e lo Stalking, così come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle donne, sviluppata dall’Istat». Azioni che, però, non bastano: «il Comitato rimane preoccupato per l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte». E qui l’affondo: «Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex-partner».

«Femminicidio» è la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale, della donna in quanto tale, della donna che non rispetta il suo ruolo. Il termine è stato coniato per i fatti di Ciudad Juarez, e ha fatto il giro del mondo. Barbara Spinelli, avvocato di Giuristi Democratici, tra le associazioni della società civile che si occupano del Rapporto Ombra rappresentante della piattaforma Lavori in Corsa – 30 anni CEDAW, ne parla in un libro scritto già nel 2008. «Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale». Già, perché tante sono e sono state nel tempo le richieste delle organizzazioni che si occupano di diritti umani di riconoscimento giuridico del femminicidio come reato e crimine contro l’umanità. Questo, si legge nella descrizione del libro, per «individuare il filo rosso che segna, a livello globale, la matrice comune di ogni forma di violenza e discriminazione contro le donne, ovvero la mancata considerazione della dignità delle stesse come persone».

Ai sensi della Convenzione Cedaw, spiega Barbara Spinelli a Linkiesta, «lo Stato ha delle obbligazioni note internazionalmente come le 4P»: prevenire la violenza sulle donne, attraverso un’adeguata sensibilizzazione, proteggere le donne che decidono di uscire dalla violenza, perseguire i reati commessi e procurare riparazione alle donne, supporto psicologico e sostegno all’ingresso nel mondo del lavoro. Inutile dire che, per le 4P, l’Italia potrebbe fare di più. «Il rapporto presentato dal governo italiano al Comitato Cedaw non dedica un capitolo specifico alla violenza sulle donne come richiesto», spiega la giurista. E «illustra troppo genericamente i provvedimenti che l’Italia ha preso». Quello che manca è «l’inquadramento della violenza dell’uomo sulle donne come carattere culturale». Le violenze si consumano soprattutto in famiglia, e soprattutto quando una famiglia si sta spaccando: ecco perché si auspica l’introduzione del divorzio breve. «La violenza sulle donne non è frutto di raptus, ma dalle relazioni di genere. E l’incapacità di adattare un’ottica di genere si riflette in un’inadeguatezza», dice la Spinelli.

Inadeguatezza e non sistematicità nella formazione degli operatori sanitari, sociali, delle forze dell’ordine e dei magistrati, «che costituiscono il primo ostacolo concreto alla protezione delle donne». Su 10 femminicidi, 7.5 sono stati preceduti da denunce alle forze dell’ordine o agli operatori sociali. «Quindi c’è una risposta inadeguata da parte dello Stato», spiega Barbara. Il comitato Cedaw «si dice appunto preoccupato per l’elevato numero di femminicidi che potrebbero evidenziare una responsabilità dello Stato nel non dare alle sue azioni in questo ambito carattere strutturale e culturale». Garantendo, tanto per cominciare, il risarcimento alle vittime. Ad oggi in Italia «la legge europea che prevede il risarcimento per le vittime è stata attuata per le vittime della violenza negli stadi, ma non per le donne», conclude amara l’esponente di Giuristi Democratici.

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/situazione-femminile-in-italia-violenze#ixzz1mCln34Cl

Lavoro e violenza, l'Italia non è un paese per donne

Articolo di Angela Gennaro


Per l’Onu, «L’Italia occupa il penultimo posto tra i paesi europei sul tema dell’equiparazione di genere». Dal lavoro alla rappresentanza, sono molti i problemi aperti per le donne. Emma Bonino, vicepresidente del Senato, spiega a Linkiesta che il Paese non riesce a fare di questa questione una priorità. Grave errore anche perché l’Italia «ha un problema di crescita che sta diventando il più grave problema per il futuro e tenere in panchina il 50% del capitale umano è una scelta insensata»

Anno 2012. Da un lato (per esempio) il Tg1 delle ore 20.00 del 25 gennaio. Servizio di Vincenzo Mollica: il «capitano» Gianni Morandi e Rocco Papaleo presentano la valletta del Festival di Sanremo, Ivana Mrazova. Bellissima, come didascalicamente descritto dalla telecamera. Dall’altro, quella che è molto più di una «tirata d’orecchie» all’Italia da parte del Comitato Cedaw, l’organismo Onu che verifica il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite contro le discriminazioni nei confronti delle donne. «Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell'uomo e della donna nella famiglia e nella società». Stereotipi, attenzione, «contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici», che «minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata in diversi settori, incluso il mercato del lavoro, l'accesso alla vita politica e alle cariche decisionali».

È da poco terminato il viaggio in Italia della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo. Una missione conoscitiva - la prima del genere in Italia, durante la quale la Manjoo ha visitato carceri, campi rom, si è fatta un’idea della realtà quotidiana delle donne. L’allarme lanciato non lascia dubbi: la violenza sulle donne «resta un problema in Italia». E l’invito è che la crisi economica non costituisca un alibi per distogliere l’attenzione. «L’Italia occupa il penultimo posto tra i paesi europei sul tema dell’equiparazione di genere, quindi che ci sia una questione femminile mi sembra molto evidente», spiega a Linkiesta Emma Bonino, vicepresidente del Senato. «È meno evidente ai più che questa è anche una questione di altissima priorità per il paese». L’Italia, infatti, «ha un problema di crescita che sta diventando il più grave problema per il futuro». E «tenere in panchina il 50% del capitale umano del paese è una scelta insensata», avverte l’esponente radicale. La chiave è proprio nel tema dell’occupazione femminile, avverte Bonino, che è anche presidente onoraria di Pari o Dispare, «sia dal punto di vista quantitativo», ovvero in termini di livelli occupazionali, «che qualitativo», cioè dal punto di vista delle carriere.

Rossana Scaricabarozzi, responsabile programma diritti delle donne ActionAid Italia, dà i numeri della rappresentanza politica delle donne. Italia: 20% dei parlamentari. Rwanda: 47 per cento, Spagna: più del 34%, Germania: 27%, Francia: 20,5 per cento. «Anche l’Afghanistan, dove certo ci sono problemi ben più gravi, a livello di rappresentanza politica supera l’Italia», spiega la Scaricabarozzi. D’altro canto nel nostro paese 4 donne su 10 «continuano a lasciare il lavoro dopo la prima gravidanza», tutto questo in un contesto di «assenza di welfare a protezione delle lavoratrici precarie».

Elsa Fornero ha annunciato di voler trovare una soluzione: «La maternità o la paternità non devono più essere vissute come un ostacolo alla carriera», spiega il ministro del Welfare con delega alle Pari Opportunità. «Anche nelle istituzioni e nella politica le posizioni di leadership sono in larghissima maggioranza occupate da uomini», spiega ancora Emma Bonino. E quindi «è evidente che la sensibilità sul tema è, anche nei casi migliori, quanto meno più indiretta». Poi c’è il contesto culturale: «per quanto riguarda i ruoli nella famiglia, la condivisione delle responsabilità di cura, è cambiato troppo lentamente e in modo assai difforme nelle diverse regioni del paese», dice la senatrice. Gli stereotipi femminili «persistono in tutti gli ambienti: nella vita familiare, in quella professionale, sociale e politica e sono continuamente confermati dai media, dalla pubblicità alla tv». Continuamente. «Quindi non c’è da stupirsi che le tematiche femminili vengano relegate in bassa priorità e percepite con un certo fastidio, soprattutto quando la crudeltà degli indicatori, come per esempio nel rapporto Cedaw, denuncia un ritardo clamoroso».

Della condizione femminile in Italia, tanto racconta anche la situazione delle carceri. La relatrice dell’Onu Rashida Manjoo spiega di essere stata messa a parte, durante la sua visita in Italia, delle difficoltà di accesso allo studio e al lavoro, «riconducibili alla mancanza di risorse e alle pratiche discriminatorie da parte del personale delle strutture carcerarie». E non manca la «disparità di trattamento da parte di alcuni giudici di sorveglianza nel riesame delle sentenze per la scarcerazione anticipata delle detenute che soddisfano i requisiti per le misure alternative al carcere». C’è poi tutta la questione dei bimbi dietro le sbarre, «i problemi che affrontano le detenute con figli minori all’interno e fuori dal carcere»: questione per la quale, secondo la Manjoo, «ove possibile, occorre valutare eventuali pene alternative». La soluzione alla quale si sta pensando, ovvero di innalzare da tre a sei anni il limite di età dei bambini che possono stare con le mamme in carcere fino a 6 anni, non è invece, per la relatrice Onu, auspicabile.

Quella delle donne in Italia è una storia che parla ancora troppo di ritardi strutturali e culturali. Epperò non mancano provvedimenti che Rashida Manjoo ha definito apprezzabili: la legge sullo stalking, i piani d’azione nazionali sulla violenza contro le donne e il Piano nazionale per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Ma non basta. La «piena ed effettiva partecipazione delle donne al lavoro e alla sfera politica» è ancora una sfida. Il quadro politico e giuridico «frammentario» e la «limitatezza delle risorse finanziarie per contrastare la violenza sulle donne», secondo la Manjoo, «ostacolano un’efficace ottemperanza dell'Italia ai suoi obblighi internazionali». E infatti siamo sorvegliati speciali, anche perché il rischio è che la crisi economica «non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese».

L’uguaglianza uomo-donna «non è soltanto un nobile ideale, è una condizione decisiva per lo sviluppo agricolo e la sicurezza alimentare» e per «vincere in modo sostenibile la lotta contro fame e povertà estrema», diceva il direttore Generale della Fao Jacques Diouf nel presentare l’anno scorso il rapporto Lo stato dell’alimentazione e dell'agricoltura. L’uguaglianza tra i generi, secondo il Rapporto sullo sviluppo nel mondo 2012 della Banca mondiale, porterebbe in alcuni Paesi ad un aumento della produttività lavorativa del 25%. «Ma quando si dà attenzione all’uguaglianza di genere ci viene il dubbio che sia una questione sottolineata solo per cercare nelle donne quella mancanza di crescita dei tempi di crisi che viviamo», avverte Rossana Scaricabarozzo di ActionAid. «Il motore del cambiamento è la necessità, mentre per essere reale e duraturo è fondamentale che sia culturale».

La via d’uscita? «Le donne non sono il problema ma la soluzione», dice all’Italia la commissaria Cedaw Violeta Neubauer. «Io sono un’ottimista cocciuta», sorride Emma Bonino. «E penso che le crisi siano degli agenti di cambiamento e che non dobbiamo perdere l'occasione della prossima riforma sul lavoro». Una riforma che «per la prima volta vedrà al tavolo negoziale un ministro donna che ha anche le responsabilità del welfare e delle pari opportunità e due controparti importanti come Confindustria e la Cgil con leader donne. Confido quindi che l’occupazione femminile e tutte le tematiche ad essa connesse saranno tenute in massima considerazione».

Presentazione di "Femminicidio" a Reggio Emilia

Lunedì 13 febbraio - Ore 17

REGGIO EMILIA
Libreria All'Arco
Via Emilia Santo Stefano, 3/d
Presentazione del libro
“Femminicidio”
(Franco Angeli Editore)
di Barbara Spinelli

Ne discutono con l'autrice
Sonia Masini - Presidente della Provincia di Reggio Emilia
Vera Romiti - Coordinatrice del Forum Provinciale delle Donne
Alessandra Campani - Associazione Nondasola

Per informazioni: Libreria All’Arco - Via Emilia Santo Stefano, 3/d – Reggio Emilia
Tel. 0522 440065 - www.libreriallarco.it

lunedì 6 febbraio 2012

La Cassazione sullo stupro di gruppo: ecco per cosa vale la pena di indignarsi.

Sono un’avvocata e sono una femminista. E sono indignata.
No, non per la famigerata sentenza della Cassazione, ma per come è stata raccontata dai media e commentata da esperti, politici e per le reazioni del movimento femminista stesso.

La disinformazione regna sovrana, circa l’effettivo significato ed il contenuto della sentenza.
Il populismo è il modo più semplice per raccogliere consensi cavalcando la disinformazione.

Il perché della mia voce fuori dal coro, ho cercato brevemente di spiegarlo nella puntata di Fahrenheit di venerdi’. E ringrazio di cuore Loredana Lipperini per avermi dato la possibilità di farlo. Ma cercherò di essere ancora più chiara e più precisa.

Partiamo dall’inizio.

Con legge n. 94/2009 l’allora Ministero delle Pari Opportunità Carfagna modificava l’art. 275 co.3 c.p.p., introducendo l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per chi fosse indagato, tra gli altri, anche per il reato di violenza sessuale.

Si trattò della classica modifica legislativa raccogli-consensi: come già commentato qui, era infatti solo un “palliativo” capace di “sedare l’opinione pubblica” a fronte dell’incapacità da parte delle Istituzioni di garantire adeguata protezione alle vittime donne e minori che scelgono di denunciare situazioni di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e prostituzione minorile.

Ma ai giuristi era evidente da subito che quella disposizione era macroscopicamente incostituzionale.
Perché?
Perché –come già commentato qui nel lontano 2010- nel nostro ordinamento, l’applicazione delle misure cautelari è subordinata a specifiche condizioni di applicabilità (273 c.p.p.: gravi indizi di colpevolezza) ed a esigenze cautelari (274 c.p.p.: o esigenze probatorie o pericolo di fuga o pericolosità sociale). La custodia cautelare (cioè il carcere obbligatorio) può essere disposta solo come extrema ratio, quando ogni altra misura cautelare risulti inadeguata (275 co.3 c.p.p.).

L’unico caso in cui il nostro ordinamento prevede per legge “il carcere obbligatorio” come misura cautelare (e quindi il legislatore presume che chiunque viene accusato di questi reati è certamente talmente pericoloso e a rischio di fuga e capace di inquinare le prove che l’unica misura cautelare adeguata è il carcere) è per i reati di criminalità organizzata.

Per tutti gli altri casi (anche nel caso del più efferato omicidio volontario), spetta al giudice valutare se nel caso concreto se sussistono i requisiti richiesti dalla legge per applicare la misura cautelare all’indagato e stabilire quale misura cautelare è la più adeguata al caso concreto.

E’ proprio sulla base di questa logica di funzionamento del nostro sistema procedurale penale (ricordiamo gli art. 13, 24, 27, 28 e 111 Cost.) che la Corte Costituzionale, nel 2010, con la sentenza n. 265/2010 aveva, come era ovvio che fosse, dichiarato l’incostituzionalità della modifica normativa introdotta dalla Carfagna nella parte in cui introduceva il “carcere obbligatorio” per legge per tutti gli indagati per violenza sessuale.

Ma in realtà la sentenza non era così ovvia né per l’opinione pubblica, né per i politici pronti a cavalcarla. E infatti si sollevò un polverone analogo a quello sollevato oggi dalla sentenza di Cassazione.

Ancora una volta, a mio avviso un polverone:

a) molto preoccupante, dal punto di vista dello stato della democrazia nel nostro Paese

b) del tutto ingiustificato dal punto di vista del contenuto della sentenza e degli obbiettivi del movimento femminista

Mi spiego meglio.

a) E’ preoccupante se neppure chi siede in Parlamento ha percepito la gravità della modifica normativa che era stata approvata e il significato della sentenza della Cassazione. Perché? NON E’ UN CAVILLO LEGALE. E’ una questione di DEMOCRAZIA. Cosa ne pensate infatti se domani il legislatore si svegliasse, e scegliesse di introdurre per legge, a parte che per i reati di criminalità organizzata, il “carcere obbligatorio” per gli indagati, oltre che per stupro, anche per un qualsiasi altro reato, come la resistenza a pubblico ufficiale, o i reati di opinione? Se la modifica introdotta dalla Carfagna fosse stata giudicata legittima dalla Corte Costituzionale si sarebbe aperta una breccia nel sistema, che avrebbe consentito al legislatore di turno di utilizzare lo spauracchio della custodia cautelare in carcere prevista obbligatoriamente per legge per criminalizzare “il nemico” di turno. Pensate in una situazione di crisi che utile strumento di controllo politico delle manifestazioni di dissenso sarebbe stato introdurre la custodia cautelare in carcere obbligatoria per tutti i classici reati per cui solitamente vengono fermati i dimostranti…Ma per fortuna la Consulta c’è, anche se in questo Paese nessuno in questo caso pare essersi accorto della sua utilità. Tuttavia, se né la società civile, né il legislatore sono in grado di cogliere che una modifica normativa raccogli consensi è in grado di aprire una pericolosa breccia nel sistema, significa che siamo pronti per il fascismo, che potrebbe tornare in forme nuove trovandoci totalmente disarmati e incapaci di riconoscerlo (e quindi di combatterlo).

b) Che cosa diceva la sentenza della Corte Costituzionale nel 2010? Che non può essere il legislatore a prevedere “il carcere obbligatorio” per gli indagati per violenza sessuale, ma deve essere il giudice a valutare se nel caso concreto il carcere è l’unica misura adeguata. Che cosa dice oggi la Cassazione? Che il principio affermato dalla Corte Costituzionale nel 2010 si applica non solo agli indagati per violenza sessuale, ma anche agli indagati per violenza sessuale di gruppo.

Dov’è il problema? Il problema non sta nel contenuto della sentenza, ma nella macroscopica e colpevole ignoranza di chi la commenta.

· In primo luogo, perché non è affatto vero che con questa sentenza la Cassazione ha equiparato la violenza sessuale allo stupro di gruppo, ma ha semplicemente stabilito che il principio affermato dalla Corte Costituzionale (che l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere non può essere decisa dal legislatore ma va valutata caso per caso) per la violenza sessuale può essere applicato anche ai casi di violenza sessuale di gruppo

· In secondo luogo, perché sia prima della l. 94/2009, sia oggi, il giudice può, poteva e potrà mandare in carcere gli indagati per violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo, se ritiene esistenti le condizioni di applicabilità della misura e le esigenze cautelari.

Dobbiamo chiederci se lo fa, e se non lo fa perchè non lo fa.
Ecco allora dove sta il vero NOCCIOLO DEL PROBLEMA.

1) IL PROBLEMA VERO E’ NEL RENDERE I MAGISTRATI CAPACI DI RICONOSCERE IL DISVALORE DELLA VIOLENZA DI GENERE E DUNQUE IN GRADO DI ADOTTARE TUTTE LE MISURE CAUTELARI ADEGUATE A PROTEGGERE LE DONNE DALLA RIVITTIMIZZAZIONE (INCLUSA LA CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE DEGLI STUPRATORI).

Il problema non è quindi avere una legge che obblighi i magistrati a mandare in carcere tutti gli indagati per violenza sessuale, ma è avere dei giudici in grado di cogliere il disvalore di questi reati e capaci quindi di applicare anche in queste ipotesi la misura della custodia cautelare in carcere.

Ce lo dobbiamo mettere in testa: salvo voler minare il nostro sistema democratico alle sue fondamenta, non possiamo prevedere per legge il carcere obbligatorio (come misura cautelare) per gli stupratori (o meglio per gli indagati per violenza sessuale). Non dobbiamo neanche desiderarlo.

E’ facile essere giustizialisti e populisti e volere tutto e subito per legge, ma questo certo non aiuta a cambiare quella mentalità patriarcale che costituisce la ragione della violenza sessista e dell’impunità di chi la commette.

Nel 2010 qui commentavamo così la sentenza della Corte Costituzionale:

“Si deve prendere atto che in Italia c’è un diffuso clima culturale sessista che permea non solo chi commette questi reati, ma qualche volta anche chi è chiamato a decidere sugli stessi.

Molto spesso ad esempio nei reati di violenza sessuale la valutazione della gravità della condotta è sempre più ravvisata quando l’azione è commessa da un estraneo e su strada; al contrario, per le violenze che avvengono all’interno delle relazioni di lavoro, familiari, amicali, molto spesso viene riconosciuto un minore disvalore sociale, che a volte si traduce addirittura nella applicazione di una pena nei limiti della sospensione condizionale. Quale tutela per queste donne? Ovvero, quale tutela per la maggior parte – statisticamente parlando – delle vittime di violenza sessuale?

Detto questo, non si può pensare che il problema si risolva prevedendo la carcerazione come obbligatoria: il problema è culturale, e si risolve da un lato decostruendo gli stereotipi patriarcali sul ruolo della donna all’interno della società, e dall’altro con una adeguata formazione.

E' tempo, anche in Italia come nel resto dell’Europa, di iniziare ad approcciare al gravissimo fenomeno criminale della violenza maschile sulle donne non soltanto attraverso l’utilizzo dello strumento penale, ma anche migliorando ed implementando l’utilizzo della l. 154/2001 e dunque degli ordini di allontanamento, fornendo ascolto e supporto effettivo, anche e soprattutto in termini psicologici ed economici, alle donne che denunciano di essere vittime di tali crimini durante la fase delle indagini e del procedimento penale.

E’ necessaria una formazione adeguata per valutare la situazione di rischio specifico che la donna corre nel momento in cui sceglie di denunciare la violenza che subisce.

Anziché imporre ai magistrati la carcerazione obbligatoria dell’indagato è decisamente più opportuno provvedere alla formazione specifica delle forze dell’ordine e della magistratura affinché venga garantita la protezione delle vittime di tali reati, con un uso adeguato di tutte le misure cautelari previste dal nostro ordinamento.

Questo richiede molte più risorse ovviamente, forse è per questo che nessuno ha il coraggio di parlarne.

Ma è questo quello che le donne che denunciano si aspettano: non vendetta, ma protezione, e il ritorno a una vita libera dalla violenza. Questo è diritto fondamentale che lo Stato ha l’obbligo di garantire sì, ma con gli strumenti adeguati.

L’incolumità psico-fisica della vittima non trova la sua massima tutela nella privazione obbligatoria per legge della libertà dell’indagato, ma in una rete di protezione che è obbligo del Governo prevedere, garantire e attuare”.

Il vero obbiettivo dunque è quello di proteggere le vittime di violenza sessuale (più in generale: di violenza di genere) dalla rivittimizzazione, ma senza leggi speciali, senza rivendicare con forza l’utilizzo di un “diritto speciale del nemico” (è un orrore che sia anche il movimento femminista a chiedere questo!).

iniziamo a chiedere quello che è giusto chiedere per il raggiungimento dei nostri obbiettivi.

Iniziamo a chiedere alle Istituzioni di far fronte alla loro responsabilità di proteggere in maniera adeguata le donne vittime di violenza di genere (e dunque anche le vittime di stupro).

Al posto di gridare allo scandalo per sentenze che in sé nulla hanno di scandaloso, io porrei le seguenti domande alla Ministra della Giustizia.

1) Esistono statistiche circa le misure cautelari applicate nei confronti di indagati per violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo (ma aggiungerei anche in caso di maltrattamenti)? In quanti casi è stata applicata la custodia cautelare in carcere?

2) Nei casi in cui non è stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere, come è stata assicurata la protezione della persona offesa dal rischio di rivittimizzazione? In quanti casi la vittima ha presentato ulteriori denunce per stalking, molestie, o altri reati nei confronti del soggetto indagato lasciato a piede libero? Quali misure sono state adottate in questi casi? In quanti casi la donna è stata uccisa dal soggetto già denunciato e sottoposto a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere?

E’ evidente che questi dati non esistono..
Ma se esistessero, andrebbero analizzati, pubblicizzati e di quei dati dovrebbe essere fatto tesoro.
Di certo confermerebbero che la scarsa applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti degli indagati per violenza sessuale (salvo che si tratti di stranieri, per i quali il pericolo di fuga molto spesso giustifica più facilmente la misura) –ma più in generale per reati che rientrano nella violenza di genere- trova spiegazione nella difficoltà da parte dei magistrati di ri-conoscere il disvalore sociale di queste condotte e di valutarle adeguatamente ai sensi degli art. 274 lett. c) e 275 c.p.p.

Un giudice in grado di riconoscere il disvalore della violenza sessuale, di valutare la pericolosità dell’aggressore sessuale (ma lo stesso discorso vale per i maltrattatori) utilizzando anche i sistemi di valutazione del rischio esistenti, è un giudice in grado di disporre immediatamente l’arresto dell’indagato per stupro e di motivare adeguatamente l’ordinanza con cui dispone la custodia cautelare in carcere.

E’ su questo che si deve lavorare.

Per questo occorre una formazione specifica e sistematica della magistratura su come riconoscere la violenza di genere, e attraverso quali metodi valutare la pericolosità sociale di questa categoria di aggressori e le specifiche esigenze di protezione della persona offesa.

Il Comitato ONU per l’applicazione della CEDAW, nella raccomandazione n. 26/2011 al Governo italiano si è definito preoccupato “per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica” e ritiene che l’elevato numero di femminicidi possa “indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex-partner”.

Anche la Relatrice speciale dell'ONU contro la violenza sulle donne, in gennaio in visita ufficiale in Italia, ha osservato che:

"la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il paese. Il continuum della violenza tra le mura domestiche si riflette nel numero crescente delle vittime di femminicidio: dalle statistiche fornite risulta che, nel 2006, 101 donne sono state uccise dal partner, dal marito o dall'ex partner, e il dato per il 2010 è aumentato a 127. Gran parte delle manifestazioni della violenza non viene denunciata in un contesto caratterizzato da una società patriarcale e incentrato sulla famiglia; la violenza domestica, inoltre, non sempre viene percepita come reato; emerge poi il tema della dipendenza economica, come pure la percezione che la risposta dello Stato a tali denunce possa non risultare appropriata o utile. Per di più, un quadro giuridico frammentario e l'inadeguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle donne vittima di violenza sono fattori che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema".


Per questo motivo, il Comitato CEDAW ha raccomandato alle Istituzioni italiane di attuare entro due anni, tra le altre, le seguenti misure per il contrasto alla violenza di genere:

- racc. 27b/2011: assicurare che le donne vittime di violenza abbiano immediata protezione, compreso l’allontanamento dell’aggressore dall’abitazione, la garanzia che possano stare in rifugi sicuri e ben finanziati su tutto il territorio nazionale; che possano avere accesso al gratuito patrocinio, alla assistenza psico-sociale e ad un’adeguata riparazione, incluso il risarcimento;

- racc. 27c/2011: assicurare che i pubblici ufficiali, specialmente i funzionari delle Forze dell’ordine ed i professionisti del settore giudiziario, medico, sociale e scolastico sistematico ricevano una sensibilizzazione sistematica e completa su tutte le forme di violenza nei confronti delle donne e delle bambine;

- racc. 27d/2011: migliorare il sistema per un’appropriata raccolta dei dati relativi ad ogni forma di violenza nei confronti delle donne, compresi dati relativi alla violenza domestica, alle misure di protezione, alle azioni penali ed alle sentenze di condanna.

A mio avviso quindi la società civile dovrebbe rimodulare le proprie istanze, chiedendo un impegno concreto e strutturale di tutte le Istituzioni per la protezione delle donne vittime di ogni forma di violenza maschile.


2) PROBLEMA NON MENO GRAVE E’ LA DISINFORMAZIONE, CHE ALIMENTA DERIVE POPULISTE E STRUMENTALIZZAZIONI POLITICHE SUL TEMA DELLA VIOLENZA DI GENERE.

Sicuramente un’adeguata informazione sui contenuti e sul significato della sentenza della Corte Costituzionale del 2010 e della Cassazione del 2012 avrebbero impedito lo stravolgimento del significato e di conseguenza la deriva populista e giustizialista dei commenti di politici e opinione pubblica.

Anche su questo punto, torna prepotente il tema della decostruzione degli stereotipi patriarcali e della formazione di genere degli operatori del diritto, dei servizi, della sanità....ma anche dei giornalisti! Colpevoli, in questo caso, di una sorta di femminicidio simbolico, perchè sicuramente hanno causato attraverso una falsa notizia (equiparazione dello stupro allo stupro di gruppo / niente carcere per gli stupratori) una ulteriore sfiducia di molte donne (e uomini) nella giustizia italiana e dunque nell'efficacia della denuncia penale di questi reati.

Ma forse il problema di fondo è a monte, in noi che riceviamo questa notizia, e dell'uso che ne facciamo.
Tutti/e sono bravi/e (e si divertono) a gridare al lupo al lupo per farlo scappare, ma nessuno/a è davvero interessato a costruire la trappola giusta per acchiapparlo?

Donne, femministe, ma voi siete interessate? O vogliamo ancora limitarci all’indignazione (e a questo punto almeno facciamo che sia per qualcosa di fondato…)?

Vero è che l’indignazione comunque è un “segnale”, come bene dice Giovanna Cosenza qui, e Lorella Zanardo qui, ma forse è arrivato anche il tempo di passare oltre, ed organizzarci per la rivendicazione di azioni strutturali ormai improrogabili.

Siamo pronte???