FEMMINICIDIO

venerdì 23 luglio 2010

Giustizia per Faith

Pubblico la lettera scritta con l'ASGI (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) per fare luce sulle inquietanti e gravissime violazioni dei diritti umani che si nascondono dietro il rimpatrio della giovane ragazza nigeriana

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Spett.le
Prefetto di Bologna
via IV Novembre, 24
40123 Bologna

Spett.le
Questore di Bologna
piazza G. Galilei
40123 Bologna

Spett.le
Garante dei diritti delle persone private della libertà personale
avv. Desi Bruno
piazza Roosvelt, 3
40121 Bologna

Spett.le
Comune di Bologna
Commissario governativo
dr.ssa Annamaria Cancellieri
piazza Maggiore, 6
40124 Bologna

Apprendiamo dalla stampa che una giovane nigeriana di nome Faith A., trattenuta presso il C.I.E. di Bologna per non aver ottemperato a pregresse espulsioni, in data 21 luglio 2010 è stata forzatamente rimpatriata in Nigeria, nonostante:

- avesse espresso la volontà di presentare richiesta di protezione internazionale, che di fatto presentava la mattina stessa attraverso il suo legale,

- nonostante nel suo Paese rischi la condanna a morte o il carcere a vita per avere ucciso un notabile che aveva tentato di stuprarla, motivo per cui la giovane si era rifugiata in Italia,

- nonostante fosse in attesa di definizione della procedura di regolarizzazione attivata sin dal settembre 2009.

Paradossalmente la giovane è stata rintracciata dalle forze di polizia dopo che queste erano state chiamate in suo soccorso, a seguito di un tentativo di violenza sessuale subito nella propria abitazione, che la giovane aveva denunciato!

Questa situazione è stata immediatamente segnalata alle Autorità di pubblica sicurezza, prima dell’inizio della esecuzione dell’espulsione così come durante l’esecuzione, ma ciò nonostante si è incredibilmente proceduto all’allontanamento ed al rimpatrio, incuranti ed indifferenti ai gravissimi rischi ai quali si sarebbe esposta la giovane straniera.

Evidenti ed inconfutabili sono le gravissime violazioni dei diritti umani di Faith e le gravissime responsabilità istituzionali per non averle consentito innanzitutto una tutela contro la violenza subita in Italia, nonché di beneficiare del diritto all’asilo politico sia attraverso il divieto di espulsione che consentendole un effettivo accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale, in violazione di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali (Conv. di Ginevra sui rifugiati del 1951 ma anche Convenzione europea dei diritti umani), dalla Costituzione italiana (art. 10, co. 3) e dalla legge italiana (art. 7 d.lgs. 25/2008 e art. 19 TU 286/98).

In considerazione di quanto sopra, si chiede che le Autorità in indirizzo forniscano, ognuno per la parte di competenza, ogni opportuno chiarimento in merito al fatto sopra descritto.

Si comunica che la scrivente Associazione si rivolgerà ai competenti Organismi internazionali per la verifica delle violazioni sopra descritte e per la tutela dei diritti della giovane Faith A..

In attesa di pronto riscontro

per ASGI:

avv. Nazzarena Zorzella
dott.ssa Barbara Spinelli

giovedì 22 luglio 2010

Custodia cautelare in carcere obbligatoria per gli stupratori? Urgono misure di altro genere per far decrescere i femminicidi.

Pubblico il comunicato che abbiamo redatto come gruppo di ricerca "Generi e Famiglie" della Associazione Nazionale Giuristi Democratici, a proposito della recente pronuncia n. 265/2010 della Corte Costituzionale e che rispecchia in pieno anche il mio sentire.


ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI
                                                 Gruppo di ricerca “generi e famiglie”


La modifica dell’art. 275 comma 3 del codice di procedura penale che prevede l’obbligatorietà della misura custodiale in carcere per determinate ipotesi di reato è stata fortemente voluta dal Ministero delle Pari Opportunità quale “palliativo” capace di “sedare l’opinione pubblica” a fronte dell’incapacità di garantire adeguata protezione alle vittime donne e minori che scelgono di denunciare situazioni di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e prostituzione minorile.

Non si può certo pensare che soluzioni repressive irrazionalmente generalizzanti possano essere di per sé solo sufficienti a tutelare le vittime e ad avere efficacia deterrente.

Nel nostro ordinamento, l’applicazione delle misure cautelari è subordinata a specifiche condizioni di applicabilità (273 c.p.p.) ed a esigenze cautelari (274 c.p.p.). La custodia cautelare può essere disposta solo quando ogni altra misura cautelare risulti inadeguata (275 co.3 c.p.p.).

La pericolosità sociale dell’indagato ai fini della custodia cautelare in carcere è presunta unicamente per i reati di criminalità organizzata. Nelle altre ipotesi è sempre il giudice che, valutando anche la pericolosità del soggetto, deve decidere quale sia la misura cautelare più adeguata al caso concreto.

E’ pericolosissimo collegare a situazioni che si ritengono di allarme sociale l’obbligo di detenzione cautelare carceraria, anzi, è anticostituzionale, perché mina alle basi i principi cardine del nostro ordinamento democratico.

L’intervento della Corte Costituzionale era dunque dovuto e le reazioni emotive a questa sentenza sono inutili e ancora una volta espressione della politica del Governo Berlusconi che cerca di stravolgere i principi fondamentali del nostro ordinamento con la legislazione dell’emergenza.

Dire che la sentenza della Corte Costituzionale è ingiusta è espressione dell’incapacità di pensare ed attuare una risposta adeguata per prevenire tutti i crimini maschili contro le donne e i minori, come peraltro raccomandato più volte allo Stato italiano dal Comitato per l’attuazione della CEDAW (Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne).

Prevedere per legge la misura cautelare più gravosa, quella della custodia in carcere, come obbligatoria, vuole solo rassicurare la collettività ma di fatto non tutela davvero chi è vittima di questa tipologia di reati, che spesso si ritrova da sola ad affrontare le fasi del processo e quelle successive. Anzi, paradossalmente danneggia le donne vittime di violenze sessuali commesse da conoscenti, compaesani, amici.

Si deve prendere atto che in Italia c’è un diffuso clima culturale sessista che permea non solo chi commette questi reati, ma qualche volta anche chi è chiamato a decidere sugli stessi.

Molto spesso ad esempio nei reati di violenza sessuale la valutazione della gravità della condotta è sempre più ravvisata quando l’azione è commessa da un estraneo e su strada; al contrario, per le violenze che avvengono all’interno delle relazioni di lavoro, familiari, amicali, molto spesso viene riconosciuto un minore disvalore sociale, che a volte si traduce addirittura nella applicazione di una pena nei limiti della sospensione condizionale. Quale tutela per queste donne? Ovvero, quale tutela per la maggior parte – statisticamente parlando – delle vittime di violenza sessuale?

Detto questo, non si può pensare che il problema si risolva prevedendo la carcerazione come obbligatoria: il problema è culturale, e si risolve da un lato decostruendo gli stereotipi patriarcali sul ruolo della donna all’interno della società, e dall’altro con una adeguata formazione.

E’ tempo, anche in Italia come nel resto dell’Europa, di iniziare ad approcciare al gravissimo fenomeno criminale della violenza maschile sulle donne non soltanto attraverso l’utilizzo dello strumento penale, ma anche migliorando ed implementando l’utilizzo della l. 154/2001 e dunque degli ordini di allontanamento, fornendo ascolto e supporto effettivo, anche e soprattutto in termini psicologici ed economici, alle donne che denunciano di essere vittime di tali crimini durante la fase delle indagini e del procedimento penale.

E’ necessaria una formazione adeguata per valutare la situazione di rischio specifico che la donna corre nel momento in cui sceglie di denunciare la violenza che subisce.

Anziché imporre ai magistrati la carcerazione obbligatoria dell’indagato è decisamente più opportuno provvedere alla formazione specifica delle forze dell’ordine e della magistratura affinché venga garantita la protezione delle vittime di tali reati, con un uso adeguato di tutte le misure cautelari previste dal nostro ordinamento.

Questo richiede molte più risorse ovviamente, forse è per questo che nessuno ha il coraggio di parlarne.

Ma è questo quello che le donne che denunciano si aspettano: non vendetta, ma protezione, e il ritorno a una vita libera dalla violenza. Questo è diritto fondamentale che lo Stato ha l’obbligo di garantire sì, ma con gli strumenti adeguati.

L’incolumità psico-fisica della vittima non trova la sua massima tutela nella privazione della libertà dell’indagato, ma in una rete di protezione che è obbligo del Governo prevedere, garantire e attuare.

Bologna - Ravenna, 22 luglio 2010

lunedì 12 luglio 2010

IL FEMMINICIDIO E' UNA VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELLE DONNE

Ankara, 15 aprile 2010


Convegno Internazionale “Pari opportunità e uguaglianza di genere: esperienze in Italia e in Turchia”

PROGRAMMA

“Equal opportunities and gender equality: experiences in Italy and Turkey”

15 April 2010

Ankara, Rixos Grand Hotel

9.00 – 9.30 Registrations

9.30 Opening speeches

• H. E. Carlo Marsili (Ambassador of Italy in Turkey)

• Mr. Reza Hossaini (Chair of the United Nations Youth, Gender and Civic Engagement

Thematic Group in Turkey)

• Ms. Güldal Akflit (Head of the Turkish Parliamentary Commission on Equal

opportunities between women and men)

• Hon. Maria Rosaria Carfagna (Italian Minister of Equal Opportunities)

• Hon. Selma Aliye Kavaf (State Minister for Women and Family Affairs)

10.45 Coffee break

11.00 Welcome & introduction

Conference moderator: Irene Fellin (Gender specialist)

First session


Violence against women and the importance of international tools in the fight against any form of discrimination

Yak›n Ertürk (Professor at Sociology Department of METU, Ankara; former UN Special Rapporteur of Violence against women, its causes and consequences)

“The universal and particular manifestations of VAW”

Barbara Spinelli (Democratic Lawyers, Italian NGO)

“An analysis of gender violence in Italy in the light of CEDAW’s recommendations”

Siusi Casaccia (Lawyer; Forum Association Women Jurist)

“Implementation of legislation on violence against women in Italy: the law against

stalking and the orders of restriction”

Feride Acar (Member of the Council of Europe ad hoc Committee on Violence Against Women; Professor at the Department of Political Science and Public Administration of METU, Ankara; former Chairperson of CEDAW Committee)

“A new European Convention to combat Violence against Women: its foundations,

scope and approach”

Q & A

12.45 Lunch break

14.00 Second session

The obstacles to women’s emancipation

Women and politics

• Francesca Zajczyk (Professor at University of Milan – Bicocca)

“More women in politics: a possible challenge?”

• Selma Acuner (KA-DER Advisory Board Member; EWL Executive Board Member)

“Political participation of women: it is a crisis situation”

Women and work

• Alessandra Casarico (Associate Professor in Public Economics and Director of Econpubblica, Center of research on the economics of the public sector at Bocconi University - Milano)

“Women’s employment in Italy: issues still open”

• ‹pek ‹lkkaracan (Women for Women’s Human Rights; Professor of Economics at Istanbul Technical University)

“Women’s participation in the labor market in Turkey: how to explain the slow progress?”

Q & A

15.45 Coffee break

16.00 Third session


Gender stereotypes in the identity construction

• Loredana Lipperini (Journalist and writer)

“A pink world: the education to the Second Sex in girls’ imaginary”

• Hülya U¤ur Tanr›över (Associate Professor at the Department of Communication Galatasaray University, Istanbul)

“Sexism in the media and in the textbooks”

• Maurizio Quilici (President of the Italian Institute for fatherhood)

“Contemporary fathers between new roles and old stereotypes”

Q & A

17.30 Closure


RELAZIONE
Un'analisi sulla violenza di genere in Italia alla luce delle Raccomandazioni del Comitato CEDAW
Dott.ssa Barbara Spinelli, Associazione Italiana Giuristi Democratici



Il 18 dicembre 2009 la CEDAW, la prima Convenzione specificamente rivolta alla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, ha compiuto 30 anni. Anche il 2010 si conferma un anno importante, perchè si celebra il quindicesimo anniversario dall’adozione della Piattaforma di Pechino, che rappresenta anch’essa una pietra miliare nel cammino per il riconoscimento dei diritti delle donne.

In questi decenni, numerose sono state le conquiste ottenute dalle donne di tutto il mondo invocando il riconoscimento dei principi affermati nelle Convenzioni internazionali e sanciti nella Piattaforma di Pechino.

Si è arrivati a riconoscere che ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti della donna, per la sua appartenenza di genere, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della Persona.

Tuttavia, i dati sulla violenza di genere e sulla posizione delle donne nella società ci ricordano che ancora molto resta da fare per rendere effettivo il godimento di questi diritti da parte delle donne.

Ancora oggi la più antica e pervasiva forma di oppressione sperimentata dal genere umano, la violenza maschile sulle donne, non è stata sradicata. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e le statistiche nazionali ci confermano che la violenza di genere resta ancora la prima causa di morte al mondo per le donne tra i 16 e 44 anni.

Nell’aprire i lavori della CSW tenutasi nel marzo 2010 a New York, il Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Alì Abdussalam Treki, ha sostenuto che la violenza di genere resta “Il crimine più comune, più ignobile e meno punito al mondo”.

Le parole del Presidente assumono un valore particolare oggi che, a 30 anni dalla adozione della CEDAW, risulta un dato acquisito e universalmente condiviso che la discriminazione e la violenza di genere rappresentano una violazione dei diritti fondamentali delle donne.

Se prima infatti la violenza maschile sulle donne veniva considerata un fatto privato, e lo stato di sottomissione ed esclusione sociale delle donne veniva giustificato o tollerato istituzionalmente come espressione della tradizione o di un credo religioso, con la ratifica della CEDAW gli Stati membri hanno riconosciuto che la discriminazione e la violenza sulle donne sono problemi strutturali, esito della “la manifestazione di un potere relazionale storicamente diseguale tra uomini e donne”1.

Ratificata da ben 186 Stati, la CEDAW ha fatto ingresso negli ordinamenti giuridici interni della maggior parte dei Paesi del mondo con valore di fonte giuridica primaria, produttiva di obblighi giuridici e vincoli istituzionali per gli Stati.

L’art. 1 della CEDAW offre una definizione onnicomprensiva di discriminazione di genere, che include qualsiasi atto che comporti la esclusione o la limitazione del godimento o dell’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali della donna proprio per la sua appartenenza al genere femminile.

Riconoscere che ogni diverso atto di discriminazione o di violenza sulle donne costituisce una violazione dei diritti fondamentali della donna, è sicuramente una affermazione di principio di grande importanza, in quanto crea una connessione tra forme di violenza apparentemente assai lontane e diverse tra loro, come le mutilazioni genitali femminili, i delitti d’onore, la violenza economica, il mobbing sul lavoro, gli atti persecutori, accomunandole tutte come violazioni dei diritti fondamentali subiti dalle donne del mondo “in quanto donne”.

Sempre più sociologhe, criminologhe e antropologhe2, stanno adottando il neologismo “femminicidio” (feminicide) come categoria di analisi per indicare ogni forma di discriminazione e di violenza (sia fisica, psicologica, economica, culturale, politica, normativa, istituzionale) commessa ai danni di una donna in quanto tale, per nominare la lesività di questi atti e significare l’annientamento della donna nella sua sfera di integrità psicofisica e di libertà di autodeterminazione o come limitazione della sua soggettività politica e della sua partecipazione pubblica; dunque femminicidio non solo riferito alle uccisioni delle donne in quanto donne ma riferita a qualsiasi violenza loro inferta per il genere di appartenenza3.

Nella mia relazione dunque utilizzerò il termine femminicidio, per indicare ogni forma di violenza e/o di discriminazione di genere.

Se  per secoli le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente dalle società patriarcali, grazie alla CEDAW possono ambire a diventare “soggetti di diritto”, e sono proprio gli Stati membri coloro che si devono fare carico dell’ eliminazione di ogni ostacolo alla realizzazione dell’autoderminazione delle donne nelle comunità di riferimento.

La CEDAW infatti, declinando la discriminazione di genere come violazione dei diritti umani, rappresenta un utile strumento per promuovere l’empowerment delle donne seguendo gli obbiettivi globali e l’agenda delle Nazioni Unite, ma agendo a livello locale.

Lo Stato italiano ha ratificato la CEDAW il 10 giugno 1985, la Turchia il 19 Gennaio 1986.

I nostri Stati hanno aderito anche al Protocollo opzionale (l’Italia il 29.10.2002, la Turchia il 22.09.2000) e dunque, accettando il sistema di monitoraggio e gli strumenti di azioni previsti dalla Convenzione, si sono impegnati sia a modificare la legislazione in maniera tale da ottenere il riconoscimento giuridico dei diritti delle donne sanciti dalla Convenzione, sia ad agire politicamente al fine rendere effettivo per le donne il godimento di questi diritti.

Gli effetti più evidenti che si sono registrati nei Paesi membri a seguito della ratifica della CEDAW sono stati da un lato l’abrogazione di tutte quelle norme interne che palesemente violavano la Convenzione, discriminando direttamente le donne nel godimento dei diritti fondamentali; dall’altro la criminalizzazione di quelle pratiche tradizionali o di quei comportamenti maschili che precedentemente venivano tollerati pur essendo lesivi della dignità della donna.

Nel tempo, i nostri Paesi si sono dotati di sistemi sempre più articolati di pari opportunità e di strumenti legislativi specifici per la prevenzione e la repressione della violenza sulle donne.

Nonostante ciò, le statistiche evidenziano il permanere di una situazione di grave sottorappresentanza femminile nella politica e nei ruoli apicali a livello economico e decisionale, e di un aumento dei reati nei confronti delle donne nonostante, -almeno per quanto riguarda l’Italia-, si registri un calo generale della criminalità.

E’ evidente dunque che le modifiche legislative, per quanto indispensabili, non sono state da sole sufficienti a cambiare la mentalità profondamente patriarcale che storicamente ha caratterizzato i nostri Paesi. E’ troppo recente il tempo in cui le donne, per legge, erano sottomesse agli uomini come mogli, figlie, e oggetti sessuali privi di qualsiasi dignità.

In Italia, la potestà maritale è stata abrogata con la riforma del diritto di famiglia del 1975; fino al 1981 l’attenuante del delitto d’onore faceva parte del nostro ordinamento. L’art. 587 del codice penale prevedeva che “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”. Fino al 1996 i crimini sessuali venivano considerati reati contro la moralità pubblica e non contro la persona: nel nostro Codice Penale tra i “Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” erano previsti fino il “Ratto a fine di matrimonio” e il “Ratto a fine di libidine”;cioè il codice puniva meno gravemente chi rapiva la donna a scopo di matrimonio; e il cosiddetto “matrimonio riparatore”, cioè quello conseguente a stupro o a rapporto sessuale consenziente, costituiva una causa di non punibilità per l’aggressore (art. 544 Cod.pen.).

Ancora oggi in Italia persiste una mentalità patriarcale che ritiene legittimo questo retaggio culturale, che costituisce il movente di numerosi femminicidi. Molte femministe, facendo riferimento ai women’s studies parlano di “cultura dello stupro”4, una concezione della donna come soggetto passivo del desiderio maschile che si esprime da un lato nella normalità per gli uomini di apostrofare le donne anche sconosciute con ammiccamenti osceni, complimenti erotici, o con veri e propri comportamenti molesti sessualmente, e dall’altro consiste nella riproposizione da parte dei media di stereotipi che raffigurano le donne come disponibili sessualmente e lasciano intendere he la ritrosia della donna sia naturale, e dunque il diniego del rapporto sessuale vada vinto con la  forza. In breve, il concetto di “vis grata puellae”, già noto agli antichi.

I nostri Paesi sono accomunati dalla preoccupazione espressa dal Comitato CEDAW per “la persistenza e pervasività dell’atteggiamento patriarcale ed il profondo radicamento di stereotipi inerenti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società”, che “sono all’origine della posizione di svantaggio occupata dalle donne”, “contribuiscono a che continui la violenza contro le donne” e “costituiscono un ostacolo alla piena attuazione della Convenzione, anche per quanto riguarda il lavoro, la salute e la partecipazione alla vita politica”5 .
Tali stereotipi sui ruoli tradizionali dell’uomo e della donna sono profondamente radicati a livello simbolico nell’immaginario collettivo, e vengono costantemente riprodotti dalla comunicazione televisiva, nella pubblicità, e spesso anche incredibilmente nei discorsi politici, legittimando socialmente una concezione ancora viva della donna come oggetto sessuale e dell’uomo come predatore, della moglie come suddita del marito e inadatta a ruoli di responsabilità o a mestieri tipicamente maschili.

Lo conferma una recentissima sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato un sindacalista della polizia penitenziaria per aver rilasciato una intervista in cui criticava la recente nomina di una donna come direttrice del carcere affermando che per dirigere quel carcere era meglio un uomo. La Cassazione ha ritenuto che la critica rivolta alla direttrice, in quanto “riferita al solo fatto di essere una donna”, costituiva “gratuito apprezzamento contrario alla dignità della persona perché ancorato al profilo, ritenuto decisivo, che deriva dal dato biologico dell'appartenenza all’uno o all’altro sesso”6.

Frasi umilianti come quella rivolta alla direttrice del carcere per molte donne italiane rappresentano spesso la quotidianità, in quanto chi le pronuncia non le percepisce come discriminatorie.

Altrettanto si può affermare per gli apprezzamenti sessuali e per le molestie sessuali, molto diffuse nella forma dei toccamenti soprattutto negli ambienti di lavoro, spesso considerate “scherzose” dagli autori, fino a quando la Cassazione non ha sancito che, qualora non consenzienti, anche semplici toccamenti costituiscono reato di violenza sessuale7.

Ma gli stereotipi più diffusi e che comportano le conseguenze più gravi sono proprio quelli relativi al ruolo della donna e dell’uomo nella relazione sentimentale.
E’ nell’ambito famigliare infatti che matura la maggior parte delle violenze sessuali, dei maltrattamenti e degli omicidi nei confronti delle donne.
In Italia è diffusa la tendenza ad attribuire agli “altri” la violenza sulle donne come segno di differenziazione innanzitutto con questi altri, con i diversi, siano essi i migranti e/o i disagiati psichici od economici.
Anche nella recente campagna pubblicitaria istituzionale promossa in occasione del G8, la violenza contro le donne veniva rappresentata come un “male oscuro”: il messaggio diceva chiaramente che “la violenza sulle donne è ignoranza e follia”8. Tuttavia, attribuendo all’essere disagiato mentale o appartenente a fasce deboli la causa della violenza, si veicolano falsi stereotipi, mistificando la realtà statistica dei dati e nascondendo la trasversalità della violenza sulle donne “in quanto donne”.

Anche i giornali spesso i giornali parlano di “raptus” e “follia omicida”, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femminicidi vengano perlopiù commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femminicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie9 e meno del 10% dei femminicidi è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi10.
Dunque, tali credenze che legano la violenza sulle donne a cause di sofferenza psichica o a vere e proprie malattie mentali risultano ampliamente smentite sia dai dati ufficiali raccolti dall’Eures nel 2006 e dal Ministero dell’Interno nel Rapporto sulla criminalità in Italia, sia dalle ricerche sul femminicidio eseguite a partire dai casi riportati dalla stampa da parte della Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna, un centro antiviolenza parte della rete nazionale “Donne in rete contro la violenza”.
In Italia, nel 1992 gli omicidi di donne rappresentavano il 15,3 % degli omicidi totali, mentre nel  2006 rappresentavano il 26,6 %11. Negli ultimi tre anni (periodo 2006-2009), le vittime (delle quali si è avuta notizia sulla stampa) di femmicidio in Italia sono state 439  12.

Solo una minima parte di queste uccisioni (-15%)13 è avvenuta per mano di sconosciuti. In più della metà dei casi il femmicidio è commesso nell’ambito di una relazione sentimentale, in essere o appena terminata, per mano del coniuge, convivente, fidanzato o ex. Nella restante parte dei casi avviene per mano di altro parente della vittima o comunque di persona conosciuta.14

E’ interessante notare che i delitti commessi da uomini italiani su donne italiane vengono identificati dalla stampa come “delitti passionali”, mentre ai delitti commessi da stranieri sulle loro mogli o sulle loro figlie ci si riferisce individuandoli come “delitti d’onore”.
Tale classificazione è indubbiamente discriminatoria in quanto sottende l’idea che commettere atti criminali per motivi di onore sia una peculiarità delle comunità straniere, con tradizioni diverse, dimenticando che identiche tradizioni “d’onore” (giuridicamente configurate come attenuanti o scriminanti per i reati) hanno caratterizzato la società italiana fino a pochi decenni or sono, come detto poc’anzi.
Anche i dati statistici confermano che è sempre il sentimento di orgoglio ferito, di gelosia, di rabbia, di volontà di vendetta e punizione nei confronti di una donna che ha trasgredito a un modello comportamentale tradizionale a spingere l’uomo ad uccidere: sia che si tratti di una figlia pachistana che disonora il padre pachistano perché va vestita all’occidentale, sia che si tratti di una figlia italiana che disonora il padre italiano perché frequenta un tossicodipendente, sia che si tratti della moglie che disonora il marito perché lo tradisce o lo vuole lasciare per un altro.
L’unica differenza sensibile che si può individuare tra le due ipotesi di femminicidio, sta nel fatto che indubbiamente nei delitti di genere maturati nell’ambito delle comunità straniere residenti in Italia, il concorso morale dei membri della comunità al fatto criminoso è significativamente più marcato.
Tale dato va tenuto in considerazione ai fini della valutazione del rischio di femminicidio per le ragazze che, sfuggendo alla comunità, cerchino protezione all’esterno, in quanto, in caso di mediazione e di rientro in famiglia, aumenta esponenzialmente il rischio che la ragazza possa subire gravissime forme di violenza fisica e psicologica.

Un dato significativo è che la maggior parte dei femminicidi in Italia si compie nella casa della vittima15 e che, su dieci uccisioni di donne, 7,5 sono precedute da maltrattamenti o da altre forme di violenza fisica o psicologica nei confronti della donna16.

Ma anche escludendo le ipotesi di femminicidio che culminano nell’uccisione della donna, i dati sulla vittimizzazione delle donne non si rivelano migliori: un’indagine ISTAT del 2004 rivela che il 55,2% del totale delle donne italiane con un età tra i 14 e i 59 anni ha subito una molestia sessuale nel corso della vita17.

Per quanto riguarda invece le violenze sessuali, è più difficile fornire un quadro della situazione perché secondo l’ISTAT soltanto il 7,4% delle donne che ha subito una violenza tentata o consumata nel corso della vita ha denunciato il fatto: vi è quindi un sommerso altissimo che sfugge dalle statistiche ufficiali, soprattutto per quanto riguarda gli stupri in famiglia18.

La violenza maschile sulle donne avviene tra le mura domestiche e nell’ambito delle relazioni coniugali perché in Italia come in altri paesi europei, nonostante l’evoluzione normativa, è ancora forte l’idea che la donna debba essere legata al ruolo di madre e di moglie, di cura della famiglia, di oggetto sessuale e riproduttivo.
Nel momento in cui la donna sceglie invece di autodeterminarsi e di allontanarsi da situazioni di denigrazione, di controllo, aumenta la violenza fisica, inizia lo stalking. Nel momento in cui nasce un conflitto della coppia questo conflitto si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, che arriva fino all’uccisione della donna.

Il problema, come rimarcato dalle osservazioni del Comitato CEDAW, è di carattere culturale: per prevenire il femminicidio è necessario in primo luogo sradicare la mentalità patriarcale che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano privato che nell’immaginario erotico di corpo a disposizione del marito, svestita, e della comunità, coperta per pudore o prostituita. In ogni caso "posseduta".
Non si accetta che nella coppia questa relazione di controllo possa avere una fine, decisa dalla donna: lo stereotipo dell'amore "per sempre" uccide.

Questo immaginario attraversa tutte le culture e impedisce l’effettiva protezione delle donne dalla violenza perché sovente è condiviso da quegli stessi operatori che dovrebbero applicare le leggi antidiscriminatorie approvate dagli Stati in ottemperanza ai principi della CEDAW.

Infatti, anche quando a livello normativo vengano predisposti eccellenti strumenti di contrasto alla violenza di genere, come le misure civili e penali di allontanamento del coniuge o del familiare violento, introdotte in Italia con la legge 154 del 2001, accade che queste misure non vengono applicate perché le donne e gli stessi legali non ne hanno conoscenza, o perché i magistrati chiamati ad applicarle, talvolta sulla base di una mentalità ancora fortemente patriarcale, le interpretano in maniera estremamente restrittiva richiedendo che per l’applicazione necessariamente debba essere già avvenuto un fatto grave di violenza fisica, o comunque   integrante  reato, in danno della donna. Il risultato è che statisticamente gli ordini di protezione in molte zone d’Italia vengono chiesti in percentuali bassissime e concessi solo in casi eclatanti di violenza, invece, là dove i centri antiviolenza hanno formato gli operatori, aperto un confronto con la magistratura e promosso numerosi ricorsi, le misure vengono adottate con maggiore frequenza e in tempi velocissimi, riuscendo davvero a svolgere la funzione di salvaguardare con efficacia la donna dal rischio di ulteriori aggressioni.

La formazione degli operatori sociali, sanitari, dell’avvocatura, della magistratura e delle forze dell’ordine svolge un ruolo cruciale nelle politiche di contrasto alle discriminazioni ed alla violenza di genere. Molto spesso la vita della donna dipende dalla capacità dell’operatore di pronto soccorso, dell’avvocato, o dell’agente di saper valutare il rischio di rivittimizzazione della donna che gli chiede supporto, o dalla sua capacità di indirizzare con prontezza la donna ai centri antiviolenza presenti sul territorio e di informarla sugli strumenti giuridici a disposizione per uscire da quella situazione. Quando noi esperte formiamo gli operatori, evidenziamo sempre che la fase di ascolto della donna che per la prima volta chiede aiuto è un momento cruciale per la sua protezione e per garantire la buona riuscita delle azioni successive di prevenzione e contrasto alla violenza.

In Italia sono stati avviati numerosi progetti di formazione professionale, tuttavia sono ancora insufficienti. Essi infatti dovrebbero essere affiancati dall’inserimento di gender studies all’interno delle principali lauree nelle discipline mediche, giuridiche e psicologiche, nonché da una formazione capillare a partire dalla scuola dell’obbligo per la decostruzione degli stereotipi legati ai ruoli tradizionali di uomini e donne nella società e nella famiglia, così come raccomandato dal Comitato CEDAW all’Italia.

A tal proposito il Comitato CEDAW nella Raccomandazione n. 19 del 2005 all’Italia, segnalava la necessità di addivenire a una definizione di discriminazione di genere che rispecchiasse quella proposta dall’art. 1 della Convenzione, essendo il Comitato “preoccupato dal fatto che la mancata previsione di tale specifica disposizione possa contribuire a far ritenere di limitata applicazione il concetto di parità sostanziale, come evidente nello Stato membro, anche tra i pubblici funzionari e a magistratura”.

Attualmente l’unica definizione di discriminazione di genere presente nella normativa italiana, è quella adottata in attuazione della direttiva UE direttiva 2002/73/CE, ma applicabile esclusivamente nell’ambito delle discriminazioni sul lavoro.

Invero, l’introduzione di una definizione di discriminazione di genere in una fonte di rango costituzionale, come suggerito dal Comitato nella Raccomandazione n. 20, avrebbe una notevole efficacia simbolica poiché effettivamente, leggendo numerosi dibattiti parlamentari, è riscontrabile che l’assenza nella legislazione di una definizione specifica di discriminazione e violenza di genere, fa sì che molto spesso, sulla base di argomentazioni etiche o di matrice religiosa, venga messa in discussione la validità stessa del concetto di genere, disancorandolo da una analisi in termini di diritti umani e riducendolo ad espressione di una visione parziale della realtà.

Indubbiamente, l’incapacità di riconoscere la specificità della discriminazione e della violenza basata sul sesso e sull’orientamento sessuale, costituisce ancora oggi in Italia il principale ostacolo alla comprensione da parte di politici e degli operatori giuridici del significato e della portata delle politiche e delle normative di pari opportunità.

Non sempre infatti le politiche e le norme in materia di pari opportunità vengono orientate ai principi sanciti dalla CEDAW, dal diritto umanitario o dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, ma accade alle volte che si modifichino a seconda dei valori morali di riferimento della parte politica di volta in volta al Governo, venendo inquinate da considerazioni etiche.

Né è un chiaro esempio la L. 40 del 2004 in materia di fecondazione assistita, che, sulla base di considerazioni etico religiose riconducibili ai dogmi cattolici, prevedeva all’art. 14, commi 2 e 3, il divieto di congelazione degli embrioni e la possibilità di impianto di massimo tre embrioni e tutti in una sola volta. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 151/2009 ha ritenuto illegittima questa norma ritenendo che comporta una eccessiva tutela per l’embrione ledendo il diritto alla salute della donna.

Un altro esempio è costituito dalla legge 7 del 2006, che criminalizza le mutilazioni genitali femminili. Il disegno di legge originario, accanto all’introduzione della sanzione penale per chi commetteva tali atti in Italia, prevedeva anche la possibilità per le donne migranti e per le loro figlie di ottenere il riconoscimento della protezione internazionale se nel Paese di origine tale pratica non era criminalizzata o comunque lo Stato di provenienza non fosse stato in grado di proteggerle perché si trattava di una tradizione fortemente diffusa e socialmente tollerata. Nel testo definitivo, l’articolo che faceva riferimento alla protezione internazionale non è stato approvato, e ancora oggi in Italia è estremamente difficile ottenere la protezione internazionale per le donne che, rientrando nel Paese di origine, rischiano di essere mutilate. La Cassazione19 infatti, contrariamente a quanto sancito a livello internazionale dall’ONU e dall’ UNHCR (Alto Commissariato ONU per i rifugiati), ha ritenuto che le mutilazioni genitali femminili non costituiscono una forma di persecuzione basata sul genere ma una forma di “sudditanza” cui le donne sono soggette in numerosi paesi del mondo, come tale non meritevole di protezione internazionale.

E’ evidente dunque che molto ancora può e deve essere fatto per assicurare in concreto il  godimento dei diritti fondamentali da parte delle donne, non solo sul piano culturale ma anche in termini di modifiche legislative.

In particolare, per evitare di incorrere in violazioni della Convenzione, le azioni di pari opportunità dovrebbero essere messo al riparo da ingerenze di carattere etico o religioso per garantire l’effettivo godimento da parte delle donne dei diritti riproduttivi previsti dalla L. 194/1990 (legge sull’interruzione volontaria di gravidanza)20.

L’azione di contrasto alla violenza ed alle discriminazioni deve inoltre essere più incisiva per quanto riguarda le donne che subiscono molteplici discriminazioni: in quanto lesbiche, in quanto donne e disabili, in quanto donne e migranti o appartenenti a minoranze etniche, religiose o linguistiche.

Analogamente, dovrebbe essere assicurato un capillare monitoraggio delle condizioni di trattenimento delle donne private di libertà in carcere, nei CIE (centri di identificazione ed espulsione), negli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari) per garantire loro l’effettivo godimento dei diritti fondamentali, ed in particolare una detenzione sicura da discriminazioni e violenze di genere.

Il Comitato CEDAW con la Raccomandazione n. 36 del 2005 ha sollecitato l’Italia ad adottare “misure concrete per l’eliminazione della discriminazione contro quei gruppi di donne maggiormente vulnerabili, tra cui le ROM e le immigrate”, e a promuovere “il rispetto nei riguardi dei loro diritti umani con tutti i mezzi disponibili, comprese misure speciali temporanee”.

Si pone dunque come obbiettivo prioritario una riforma del T.U. sull’Immigrazione che riconosca la pecificità di genere nella migrazione e nel diritto d’asilo politico.
Andrebbe, innanzitutto, prevista la protezione internazionale (asilo politico) per le donne vittime di violenza di genere all’interno delle famiglie o delle comunità di appartenenza (matrimoni forzati, mutilazioni sessuali, violenza all’interno della famiglia con atteggiamento complice e/o omertoso da parte delle comunità di appartenenza, ecc.), dalle quali i Paesi di origine non siano stai in grado di proteggerle, come previsto dalle linee guida dell’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati)21e come già avviene in numerosi Paesi europei.
Altresì, in ogni caso, andrebbe codificata una estensione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari oltre che per le vittime di tratta anche per le potenziali vittime di matrimoni forzati o di altri delitti di genere, e comunque per tutte le situazioni nelle quali le donne straniere siano destinatarie di violenze, non necessariamente fisiche, all’interno della famiglia, con possibilità di deroga alle disposizioni normative vigente in materia di immigrazione, al fine di favorire una effettiva emancipazione delle donne maltrattate rispetto alle famiglie.

Andrebbero inoltre riviste le recenti modifiche riguardanti i minori non accompagnati22, che, destinando le giovani donne straniere arrivate in Italia quasi maggiorenni alla clandestinità nel momento del compimento della maggiore età, le espongono ad un alto rischio di diventare vittime di tratta o di altre organizzazioni criminali per essere impiegate nel lavoro nero o come schiave del sesso.

Va inoltre evidenziato che l’introduzione del reato di clandestinità comporta una maggiore difficoltà per le donne straniere nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, e le espone ad una maggiore accettazione delle violenze subite perché sono consapevoli che, presentando la denuncia-querela, rischiano di essere identificate e a loro volta denunciate per clandestinità, poiché i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio hanno l’obbligo giuridico di denunciare tutte le notizie di reato di cui vengano a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni23.

Tali argomenti, in questa sede soltanto brevemente accennati, costituiscono solo alcuni dei più significativi esempi di come un’analisi di genere delle modifiche normative e delle politiche nazionali che a primo impatto possono sembrare “neutre” di fatto si rivelino discriminatorie nei confronti delle donne e adottate in violazione della Convenzione (CEDAW).

Poiché l’Italia ha aderito senza riserve anche al Protocollo opzionale, la Convenzione per noi, giuriste e attiviste per i diritti umani rappresenta un mezzo efficacissimo per richiamare lo Stato al rispetto dell’obbligo di diligenza (due diligence obligation).

E’ possibile agire non solo politicamente, ma anche giuridicamente, su più livelli. Da un lato i principi sanciti dalla CEDAW possono fungere come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità interno, dall’altro è comunque possibile attivare il ricorso agli strumenti di tutela previsti dalla Convenzione.

L’obbligazione di “utilizzare tutti i mezzi possibili per prevenire qualsiasi violazione dei diritti umani delle donne"(Punto 4, Risoluzione del Parlamento europeo sul seguito della Quarta Conferenza mondiale sulla piattaforma di azione per le donne) è stata assunta dallo Stato italiano non solo a livello internazionale attraverso la ratifica della CEDAW, ma anche a livello comunitario.

Il Consiglio Europeo infatti ha sottolineato in molteplici occasioni la necessità di "riconoscere che lo Stato ha l'obbligo di esercitare la dovuta diligenza nel prevenire, investigare, e punire gli atti di violenza, sia che siano esercitati dallo Stato sia che siano perpetrati da privati cittadini, e di provvedere alla protezione delle vittime" (Council of Europe, Recommendation 5/2002 of the Committee of Minister to member states on the protection of women against violence , II ).

Per la sua specificità di genere, la CEDAW costituisce anche un importante strumento di lobby per richiamare le Istituzioni, nazionali e locali, ad una corretta gestione delle risorse riservate alle politiche di pari opportunità, e per verificare che gli obbiettivi delle politiche e delle riforme normative in materia di pari opportunità rispondano alle linee guida indicate periodicamente dal Comitato per l’applicazione della CEDAW.

Gli Stati che hanno ratificato la CEDAW e le altre carte regionali, si sono assunti un obbligo ben preciso: adoperarsi affinché le donne abbiano cittadinanza, ovvero affinché possano in concreto godere dei loro diritti fondamentali. Il che implica per lo Stato l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni discriminatorie non solo attraverso modifiche normative ma anche e soprattutto promuovendo un cambiamento culturale, riconoscendo che la libertà di scelta della donna, la sua integrità psico-fisica, sono valori assoluti, che vanno riconosciuti senza lasciar spazio a compromessi di tipo morale o religioso.

La sfida è superare la ritrosia dello Stato a diffondere il contenuto della Convenzione e delle Raccomandazioni, a coinvolgere le ONG nella preparazione e nella stesura del Rapporto, e ad utilizzare la CEDAW come punto di partenza per colmare il divario ad oggi sussistente tra leggi, politiche, e aspirazioni di uguaglianza da un lato, e dall’altro la realtà di discriminazione e violenza vissuta quotidianamente da donne e bambine.

Chiediamo quindi alle Istituzioni di accogliere questa sfida (ma prima ancora richiamiamo la responsabilità di ogni singola/o ad attivarsi in prima persona per rivendicare la necessità di tali azioni), perché è necessario che il cambiamento coinvolga tutti gli attori sociali interessati: attraverso l’ apertura di un dibattito serio e partecipato sulle questioni di genere, attraverso la traduzione e la diffusione capillare dei dati europei in materia, dei principali atti europei, delle risoluzioni, delle raccomandazioni, al fine di coinvolgere tutti gli attori sociali e le ONG operanti in tale ambito, anche attraverso la creazione di un organismo avente le medesime funzioni che l’UNAR assolve per le discriminazioni razziali.

Il lavoro delle ONG e delle associazioni impegnate contro la discriminazione e la violenza per la promozione dei diritti delle donne è tuttora un lavoro fondamentale anche per la raccolta delle informazioni, l'identificazione delle problematiche e di eventuali vuoti normativi, la condivisione e la diffusione di buone pratiche.

In Italia nel novembre scorso una piattaforma di organizzazioni ha dato vita ad una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla CEDAW per celebrare significativamente il 30 anniversario della Convenzione24. La rete continua a lavorare e si prepara alla redazione del Rapporto Ombra da sottoporre al Comitato nel luglio del 2011 quando il VI rapporto periodico presentato dall'Italia sarà analizzato dal Comitato CEDAW".

L’Associazione Italiana dei Giuristi Democratici, che oggi qui rappresento, fa parte di questa rete25.
Ma già nel 2006, in occasione del 25 novembre, la giornata mondiale di contrasto al femminicidio, per i G.D. tradussi in Italiano le Raccomandazioni del Comitato CEDAW riferite all'ultimo rapporto, e promuovemmo una interrogazione parlamentare a risposta scritta (On. Deiana, Dioguardi, De Simone, n. 4-02065 del 2006) per chiedere perché le Raccomandazioni provenienti dal Comitato non fossero state né tradotte, né diffuse, né poste alla base dei lavori parlamentari in materia.

Ad oggi, quella interrogazione parlamentare non ha mai trovato risposta (VERGOGNA!!!).
Ad oggi (VERGOGNA!!!), il Governo non ha ancora nè tradotto nè diffuso non solo le Raccomandazioni del 2005, ma neanche il testo della Convenzione, e tantomeno il Rapporto Periodico che ha consegnato al Comitato CEDAW a dicembre 2009 (Il materiale è consultabile qui: http://gdcedaw.blogspot.com/  ).

Noi, ONG, assolvendo un compito che spettava agli organi istituzionalmente deputati, abbiamo  ribadito che per eliminare ogni forma di discriminazione e di violenza occorre la volontà politica di mettersi in gioco: da parte delle Istituzioni, in primo luogo urge stanziare i fondi necessari per assicurare la possibilità di elaborare progetti a lungo termine e consentire la creazione di una rete organizzativa locale che possa attuare in maniera coordinata il Piano di Azione, in concertazione con le associazioni di donne e con gli operatori sociali che per l'autodeterminazione delle donne lavorano da sempre.

Credere che un cambiamento sia possibile importa una grande spendita di energie, mezzi, risorse.
Implica soprattutto volgere lo sguardo al futuro, poiché "un futuro democratico alternativo si costruisce giorno per giorno su pratiche democratiche", anche per le donne.

NOTE

1 Dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, 20.12.1993.

2 RUSSELL Diana- RADFORD Jill, (1992) Femicide, the politics of woman killing, New York, Twayne Gale Group; RUSSELL Diana - HARMES A. Roberta, (2001), Femicide in global perspective, New York, Athena series; LAGARDE Y DE LOS RIOS Marcela, (2004 e 2006) Por la vida y la libertad de las mujeres: Fin al feminicidio. MONARREZ FRAGOSO J.,Elementos de analisis del feminicidio sexual sistemico en Ciudad Juarez para su viabilidad juridica, in “Femminicidio, Justicia y Derecho”, LIX Legislatura, COMISION ESPECIAL PARA CONOCER Y DAR SEGUIMENTO A LAS INVESTIGACIONES RELACIONADAS CON LOS FEMINICIDIOS EN LA REPUBLICA MEXICANA Y A LA PROCURACION DE JUSTICIA VINCULADA, Messico, novembre 2005; NADERA SHALOUB – KEVORKIAN, (2003) Reexamining femicide: breaking the silence and crossing scientific borders, in “Signs”, Chicago, Winter 2003, volume. 28, Iss. 2, pg. 581. GIURISTI DEMOCRATICI - SPINELLI Barbara, a cura di, Violenza sulle donne: parliamo di femminicidio.Spunti di riflessione per affrontare a livello globale il problema della violenza sulle donne con una prospettiva di genere, Bologna, 2006. www.giuristidemocratici.it; SPINELLI Barbara (2008) Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, FrancoAngeli, Milano; SPINELLI Barbara (2008) , “Femicide e feminicidio: nuove prospettive per una lettura gender oriented dei crimini contro donne e lesbiche” nella rivista criminologica “Questione criminale”, Carocci, novembre 2008. In particolare, Nadera Shaloub Kevorkian, criminologa palestinese, definisce femminicidio “ogni metodo sociale di egemonia maschile usato per distruggere i diritti, le potenzialità, le abilità, delle donne e il potere di vivere in sicurezza. È una forma di abuso, attacco, invasività, molestia, che degrada e subordina la donna. Conduce a uno stato di paura perenne, frustrazione, isolamento, esclusione, e pregiudica la possibilità femminile di essere padrone della propria vita. (…) Con questa nuova definizione (…) si mostra come relazioni di dominio ingiuste creano crimini che non sono stati neanche catalogati come tali dalla ricerca criminologica o vittimologica. […] Il femminicidio si può capire meglio attraverso la voce delle vittime, l’analisi delle istituzioni sociali, delle strutture organizzative sociali, e gli schemi relazionali costruiti sulla tradizione. [...] Accettare una più ampia definizione di femminicidio è solo un passo nello spiegare e lottare contro il sessismo femminicida e il lungo, sfibrante processo che conduce alla morte fisica o interiore. Più studiamo il femminicidio più scopriamo quanto sia un fenomeno enigmatico, per noi che non oltrepassiamo i limiti, dar voce a ciò che prima non aveva voce, o sollevare il velo del rifiuto lì dove da sempre l’atmosfera è statica.” (Nadera Shaloub Kevorkian).

3 Nadera Shaloub Kevorkian sostiene che si possono avere molte ragioni culturali diverse per giustificare la punizione di una donna attraverso il femminicidio, tuttavia “è possibile racchiudere centinaia di pratiche culturali proprie di diverse culture sotto un unico titolo: Come mantenere lo stato di subordinazione delle donne”3. L’assassinio per motivi di genere, cioè il femmicidio (femicide) rappresenta solo l’atto ultimo di controllo della donna, la punizione finale per non aver rispettato il ruolo impostole dalla società patriarcale “in quanto donna”. NADERA SHALOUB – KEVORKIAN, (2006). Violence in the name of honor: theoretical and political challenges, (reviewed by), in “Canadian Women Studies”, Winter 2006, 25, pg. 202.

4 http://femminicidio.blogspot.com/2009/02/contro-la-cultura-dello-stupro.html
   http://femminismo-asud.noblogs.org/post/2009/05/24/in-italia-la-cultura-dello-stupro-protegge-i-maschi-bianchi-ricchi-e-famosi
http://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_dello_stupro .

5 (Racc. 25 all’Italia; Racc. 29 alla Turchia, 15.02.2005).

6 Cass. sentenza n. 10164/2010

7 Si vedano le più recenti Cass. n. 39718/2009 e n. 12101/2009.

8 Campagna campagna di comunicazione "Respect women Respect the world", promossa dalla Presidenza italiana del G8 per promuovere la conferenza contro la violenza sulle donne tenutasi a Roma il 9 settembre 2009.

9 Dalla stampa, nel 2006 il 3,9 % dei femicidi risulta commesso per problemi psichici; nel 2007 il 5,5% vengono attribuiti a problemi psichici e il 6,3% a raptus o follia; nel 2008 il 4,4% dei casi sono ricondotti a problemi psichici e il 3,5% a raptus o follia, nel 2009 il 18% dei casi è ascritto a raptus, follia o problemi psichici (i dati sono qui raccolti congiuntamente). Le fonti dei dati riportati sono le ricerche effettuate sulla stampa dalla Casa delle donne per non subire violenza e pubblicate sul sito http://www.casadonne.it/ nella sezione “materiali pubblicati”e rispettivamente “Femminicidi in Italia nel corso del 2006: indagine sulla stampa italiana” di C.Karadole; “La mattanza: Femminicidi in Italia nel corso del 2007, indagine sulla stampa” di Sonia Giari; “Donne uccise dai loro cari: indagine sul femminicidio in Italia nel 2008” di C.Verucci, C.Pasinetti, F.Urso, M.Venturini; “Feminicidi nel 2009: un’indagine sulla stampa italiana” di S.Giari, C.Karadole, C. Verucci, C. Pasinetti

10 Nel 2006 il 3,9%; nel 2007 il 6,3%; nel 2008 l’11,5% nel 2009 l’8%; fonte: ricerche in http://www.casadonne.it/  cit. nella nota 9.

11 Rapporto sulla criminalità in Italia – Ministero dell’Interno.

12 Fonte: ricerche in http://www.casadonne.it/  cit.

13 Nel 2006 il 7,9% delle uccisioni avviene per mano di un non parente, nel 2007 il 12% nel 2008 il 12,4% e nel 2009 il 6%; fonte: vedi nota precedente.

14 Nel 2006 il 7,9% delle uccisioni avviene per mano di un non parente, nel 2007 il 12% nel 2008 il 12,4% e nel 2009 il 6%; fonte: vedi nota precedente.

15 Questa informazione, stando alle ricerche citate in pecedeenza è disponibile solo per gli anni 2008 e 2009 e risulta che nel 2008 il 70,8% dei femicidi è avvenuto nell’abitazione della donna e nel 2009 nel 71% nell’abitazione della donna o di altri parenti o dello stesso autore.

16 Dati Eures-Ansa.

17 Rapporto Istat 2004.

18 Rapporto Istat 2006 “La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia.

19 Cass. civ. n.24906/2008

20 Non ultima, andrebbe garantita la disponibilità effettiva della pillola RU486 in tutte le Regioni, specialmente in quelle dove il numero dei medici obbiettori di coscienza supera il 90% del totale o dove comunque si sono registrate posizione politiche contrarie alla diffusione di tale farmaco.

21 http://www.unhcr.org/refworld/women.html

22 Introdotte con la legge n. 94/2009.

23 Art. 331 comma 4 c.p.p.

24 http://www.womenin.net/web/cedaw/home

25 L’associazione G.D. in collaborazione con D.i.RE, donne in rete contro la violenza (la rete nazionale dei centri antiviolenza), nell’ambito di queste celebrazioni, nel gennaio 2010 ha invitato in Italia la Special Rapporteur ONU contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo, che ha presenziato a vari eventi informativi

lunedì 5 luglio 2010

Donne migranti: i diritti da conquistare due volte

Bolzano, 25 marzo 2010


Intervento di Barbara Spinelli (Giuristi Democratici) alla Conferenza "Violenze sulle donne straniere e differenze culturali"

Che cosa fa chi si scopre inesistente? A volte scappa, voglio dire fisicamente, e se ciò non è possibile cerca di reagire, accetta le regole del gioco, cerca di mimetizzarsi con i carcerieri. Oppure si rifugia nel proprio mondo interiore e, come Claire nell’Americano, trasforma quell’angolino in un santuario: in sostanza entra in clandestinità.”
                                                                                        (A. Nafisi, Leggere Lolita a Teheran)



1. Il ruolo delle ONG e degli Enti locali alla luce delle obbligazioni internazionali e comunitarie di eliminazione di ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti delle donne affinchè effettivamente godano dei loro diritti fondamentali.

Una donna che subisce violenza tra le mura domestiche spesso, col tempo, si scopre inesistente, annullata nella propria volontà. Proprio come così bene descrive Azar Nafisi nell’opera citata è la scoperta del proprio non essere più corrispondenti alla propria idea di sé che genera nella donna che subisce violenza la reazione: fuga o mimesi, per la sopravvivenza. La donna che subisce maltrattamenti, violenza da parte del partner, atti persecutori, entra in clandestinità perché sa che è proprio l’espressione di sé, dei propri desideri, a scatenare l’aggressione. La donna straniera che subisce violenza due volte si scopre inesistente, clandestina in casa e fuori, in quanto donna e in quanto straniera. Alla donna, “in quanto donna”, si chiede conformità. Obbedienza. Disponibilità. Rispetto del ruolo che secoli di patriarcato hanno assegnato al suo sesso: madre, moglie, oggetto sessuale, oggetto di culto. Nel momento in cui la donna antepone i propri desideri, le proprie scelte, al comportamento che ci si aspetterebbe da lei in funzione del ruolo che ricopre, la punizione è la discriminazione, la violenza. Il cammino per l’affermazione della soggettività femminile è lungo, e costellato di ostacoli. Per secoli le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente dalle società patriarcali. Porre in essere azioni di contrasto alla violenza di genere, oggi, implica trovare soluzioni per fare uscire le donne dalla clandestinità della violenza, fornire loro gli strumenti per autodeterminarsi e affermare la propria identità, i propri sogni, i propri desideri, in quanto donne, dentro e fuori dal nucleo familiare. Non più un’azione delle Istituzioni sulla donna, resa “oggetto di diritto”, ma un’azione delle Istituzione per la donna, affinché divenga “soggetto di diritto”. Questo significa, in concreto, agire per il riconoscimento dei diritti umani nei confronti delle donne. Questo è possibile realizzare attraverso una azione di rete interistituzionale di contrasto alla violenza di genere, in quanto ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti della donna per la sua appartenenza di genere, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della Persona (art. 1 CEDAW). Le donne sono state, anche da parte delle Istituzioni, “oggetto di diritto”, subordinate alla disciplina imposta culturalmente e normativamente dalle società patriarcali. Grazie alla statuizione che i diritti della donna sono diritti umani, inclusa prima nella Dichiarazione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e poi statuita nella CEDAW, il genere femminile può ambire a diventare “soggetto di diritto”. Sono proprio gli Stati membri coloro che si devono fare carico della promozione di questa soggettività politica delle donne, mediante l’ eliminazione di ogni ostacolo alla realizzazione dell’autoderminazione delle donne nelle comunità di riferimento. Quando si parla di promozione dell’effettivo godimento dei diritti delle donne come obbligazione internazionale, comunitaria, costituzionale (art. 2 e 3 Cost.) degli Stati – in special modo di quelli che hanno ratificato la CEDAW, si dimentica spesso che, in ragione dell’art. 117 della Costituzione, questa obbligazione ricade, per le materie di competenza, anche sugli Enti Locali. Dunque, nelle politiche di pari opportunità locali, così come nell’azione coordinata di enti locali e ONG, è importante tenere a mente le linee guida e le raccomandazioni internazionali e comunitarie concernenti il tema sul quale si va ad agire. From local to global, e viceversa. In questa sede, per quanto concerne le donne migranti, mi limito a ricordare nello specifico i principi contenuti nelle Convenzioni ONU CEDAW (C. per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) e CERD (C. per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale), nonché le specifiche Raccomandazioni rivolte dal Comitato CEDAW (2005) e dal Comitato CERD (2008) al Governo Italiano concernenti le donne migranti, e, tra le altre, la Risoluzione del Parlamento Europeo sulla immigrazione femminile 437/2006.



2. Ri-conoscere la violenza e le discriminazioni di genere nei confronti delle donne migranti.

Il problema della violenza maschile sulle donne, come rimarcato dalle osservazioni del Comitato CEDAW, è di carattere culturale: per prevenire il femminicidio è necessario in primo luogo sradicare la mentalità patriarcale che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano privato che nell’immaginario collettivo come di un corpo “a disposizione”: del marito, svestita ed asservita, e della comunità, coperta per pudore o prostituita; utero necessario alla continuità della specie e delle formazioni sociali.Questo immaginario attraversa tutte le culture e impedisce l’effettiva protezione delle donne dalla violenza perché sovente è condiviso da quegli stessi operatori che dovrebbero applicare le leggi antidiscriminatorie approvate dagli Stati in ottemperanza ai principi della CEDAW. Per questo, per poter ri-conoscere la violenza e le discriminazioni di genere, è indispensabile in via preliminare decostruire, a partire da sé, gli stereotipi e i pre-giudizi concernenti il ruolo della donna nella società e nel privato. Specialmodo, per quanto concerne le donne migranti, spogliarsi degli stereotipi concernenti il ruolo della donna sia nella società di origine e in quella ospitanti. Per fare ciò è necessario che l’operatore abbia ricevuto una buona formazione su quali sono le forme della violenza “sociale” e “domestica”, e quali le dinamiche sociali, relazionali, economiche, psicologiche, sulla quale si innesta e che la rendono più feroce nei confronti della donna nei confronti della quale è operata. Ogni singolo caso presenta peculiarità specifiche, per cui in questa sede, per motivi temporali, ci limiteremo ad analizzare alcuni casi concreti a partire dalle domande che eventualmente verranno poste. Una volta adeguatamente formato ed affiancato nel suo percorso, l’operatore è pronto per la fase dell’ascolto. Il primo incontro con la donna è il momento principale, fondamentale, per valutare la situazione di rischio per la donna, e rappresenta spesso forse l’unico momento per rappresentare alla donna che chiede supporto le possibilità che le si profilano davanti per uscire dalla situazione di violenza, e quali sono le probabili conseguenze alle quali va incontro evitando di seguire determinate strategie, quale è il grado di rischio per lei derivante dalla condotta discriminatoria o violenta esposta. Una valutazione superficiale, o una mera presa in carico assistenzialista nei confronti della donna in questa fase, può significare la perdita di chances per la stessa di avviare un percorso di consapevolezza ed empowerment, con il rischio che la stessa si rifugi nella situazione di discriminazione / violenza, accettandola e, come suggerisce la Nafisi, facendone un santuario di clandestinità nel quale sarà difficile raggiungerla nuovamente e motivarla diversamente. La violenza sulle donne migranti è duplice, doppia è pure la difficoltà di trovare soluzioni accettabili per la donna che la denuncia all’operatore sociale. Il processo migratorio femminile, che ad oggi costituisce più del 50% dei flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Unione Europea, non rappresenta un fenomeno omogeneo: vi sono donne che subiscono l’immigrazione del nucleo familiare, ed altre che la agiscono in prima persona ricollocando il proprio ruolo economico e familiare in uno spazio transnazionale. Ciò pone in una diversa situazione – anche per quanto concerne la valutazione dei rischi di discriminazione e violenza - donne che comunque, collocandosi in una società nuova, sono costrette a confrontarsi con altre regole, altri costumi, ed un diverso ruolo che si chiede loro di ricoprire nel nuovo contesto di inserimento. Per quanto riguarda le migranti di prima generazione, da un lato, la donna è legata nelle sue relazioni alla comunità di appartenenza, che in alcuni casi la vorrebbe in una posizione subordinata, anche per esplicita previsione di legge del Paese di appartenenza, dall’altro, in quanto straniera, è stigmatizzata nella società di accoglienza che, non riconoscendo la specificità di genere nella migrazione, ne rende incerto lo status giuridico e, di conseguenza, la possibilità di essere soggetto autodeterminato. Ciò comporta una enfatizzazione del ruolo della donna migrante come soggetto debole all’interno della famiglia, interdipendente dal destino collettivo del nucleo, e dunque ricattabile nella relazione coniugale, e/o, in ogni caso, maggiormente soggetta a discriminazioni nell’accesso al mercato del lavoro, nella determinazione del salario, nonché perennemente esposta al rischio di povertà ed esclusione sociale, specialmodo in caso di distacco dal nucleo familiare. Diverso il discorso per le adolescenti di seconda generazione, che spesso sono investite, anche a livello simbolico, della responsabilità di incarnare e riprodurre l’identità collettiva e le tradizioni del contesto di origine del nucleo familiare, pertanto sono sottoposte a forti aspettative e pressioni da parte della famiglia in diversi ambiti di vita (Mara Tognetti Bordogna, 2008), e ciò ovviamente le espone ad un rischio maggiore di vittimizzazione. Diverso ancora il discorso per le richiedenti asilo e le vittime di tratta, per le quali sarebbe necessario un discorso a parte, per il quale sarebbe insufficiente il tempo a disposizione. In ogni caso, questi sono fattori fondamentali da tenere largamente in considerazione nella valutazione delle strategie di empowerment da sviluppare con azioni mirate allo specifico contesto migratorio sul quale si vuole agire.


3. Sviluppare a livello locale strategie di azione di prevenzione e contrasto alla discriminazione e violenza nei confronti delle donne migranti.

Rendere effettivo il godimento dei diritti fondamentali per le donne migranti è possibile creando le condizioni e le procedure che consentano alle donne migranti: a) di sapere poter superare gli ostacoli che si frappongono alla loro completa autodeterminazione (= informazione); b) di scegliere di poter uscire dalla clandestinità della segregazione linguistica, professionale, sociale e della violenza domestica (=accesso effettivo a percorsi di empowerment). In linea generale, le donne straniere si trovano a dover affrontare gravi problemi connessi a:- inserimento lavorativo - inserimento sociale - soggezione allo status maritale - soggezione a reti criminali - stereotipi negativi Porre in essere azioni di empowerment significa individuare strategie specifiche che consentano di superare gli ostacoli linguistici, economici, giuridici, culturali che si frappongono alla possibilità per le donne di autodeterminarsi (giuridicamente e economicamente) a fronte di situazione di grave discriminazione o violenza. Le strategie di base (politiche proattive) prevedono corsi di apprendimento della lingua ma, in maniera particolare, la presenza di operatrici agli sportelli di accoglienza che parlino la lingua dei gruppi migratori presenti sul territorio e, possibilmente, non appartengano a quella comunità. Ciò consentirebbe alle donne un senso di maggiore sicurezza e libertà di esporre la propria situazione. A ciò si aggiungono campagne di informazione nelle lingue veicolari e nelle lingue delle comunità migranti maggiormente presenti sul territorio rivolte alle donne migranti al fine di informarle sulle strutture consultive presenti sul territorio, sui requisiti richiesti per un regolare soggiorno in Italia, sui diritti riproduttivi, sui diritti sul luogo di lavoro, e al fine di prevenire ed evitare matrimoni precoci, matrimoni concordati, rimpatri forzati, o altre forme di costrizione fisica o psicologica. Le campagne devono utilizzare un linguaggio semplice,e divulgativo, oltre che multilinguistico. Per quanto riguarda nello specifico le donne potenziali vittime di violenza domestica, è importante che si individuino luoghi frequentati nel quotidiano dalle stesse (scuole dell’obbligo, supermercati, ospedali, bacheche pubbliche) nei quali possano essere fornite informazioni, perennemente esposte, sui luoghi dove viene fornito un adeguato sostegno medico, giuridico e sociale, sulla possibilità di avere un supporto pubblico in caso di emergenza senza il rischio di perdere i propri figli ed anche abbandonando la propria casa, o senza il rischio di essere denunciate se irregolari. Importante è poi che gli operatori che vengano a contatto con situazioni di violenza domestica o di sfruttamento (sul lavoro, sessuale) seguano alcune fondamentali cautele per evitare un innalzamento del rischio nei confronti della donna che si rivolge al servizio: 1) evitare il contatto diretto con gli autori della violenza per assumere ulteriori informazioni o tentare strategie di mediazione ( è stato evidenziato infatti da numerosi studi e osservazioni sul campo come “mediare non paga”: ovvero espone la donna al rischio di rivittimizzazione -isolamento, rimpatrio, incremento di violenza- ); 2) coinvolgere gli specialisti di riferimento ed evitare in ogni caso di consigliare alla donna la denuncia se prima non abbia già provveduto alla sua messa in sicurezza, all’acquisizione delle fonti di prova necessarie a sostenere l’accusa in giudizio, e non abbia accuratamente valutato le conseguenze che ciò comporterebbe anche in termini di regolare permanenza della donna sul territorio. Questi solo alcuni spunti per il dibattito, prima di lasciare spazio alle domande vorrei concludere, forse in maniera abbastanza scontata, ma con un concetto che ritengo essenziale.

Conclusioni

Il primo muro da abbattere per rendere concreto il godimento dei diritti fondamentali per le persone che si trovano in condizioni più svantaggiate è la mancanza di volontà politica di porre in essere azioni organiche, che vadano a rimuovere all’origine quelle condizioni che favoriscono il permanere di donne e migranti in situazioni di discriminazione e violenza. E dunque, quando si crea una sinergia tra Governo locale e associazionismo, la sfida deve essere questa: mettere in comune fondi, risorse umane, competenze, per pensare in modo diverso la propria comunità. Dunque, una grande spendita di energie, mezzi, risorse. E uno sguardo al futuro nella predisposizione delle strategie di oggi, perché "un futuro democratico alternativo si costruisce giorno per giorno su pratiche democratiche", anche per le donne.



Donne migranti: i diritti da conquistare due volte

domenica 4 luglio 2010

Femminicidi in Italia: il Rapporto Eures - Ansa


Omicidi in aumento, al nord e in famiglia
Rapporto Eures-Ansa: è donna una vittima su quattro
03 luglio, 19:08
(ANSA)



ROMA - I 'femminicidi' hanno subito un "incremento significativo" nell'ultimo decennio: la maggioranza delle vittime restano gli uomini, ma le donne uccise sono passate dal 15,3% del totale nel periodo 1992-'94 al 23,8% del biennio 2007-2008. E' quanto si ricava dall'ultimo rapporto Eures-Ansa su "L'omicidio volontario in Italia". Secondo il rapporto resta una "forte prevalenza delle vittime di sesso maschile" (che nell'ultimo biennio in esame rappresentano il 76,2% del totale), ma l'aumento dei femminicidi é un dato di fatto "riconducibile - si legge nella ricerca - al decremento degli omicidi della criminalità organizzata (che colpisce quasi esclusivamente gli uomini) accompagnato da una progressiva maggiore incidenza dei delitti in famiglia (all'interno dei quali le principali vittime sono donne)".
Se ci si ferma all'ultimo anno disponibile, il 2008, si osserva che la vittima è una donna in un caso su 4 (il 24,1%. Ma, in percentuale, l'anno peggiore dell'ultimo decennio è stato il 2006: le donne uccise furono 181, pari al 29,4%). Ed è il Nord, "dove sono più frequenti gli omicidi in famiglia", a registrare la quota prevalente delle vittime di sesso femminile - 70, pari al 47,6% delle 147 uccise nel 2008 in Italia - a fronte del 29,9% al Sud (44 vittime) e del 22,4% al Centro (33 vittime). Al Sud la distribuzione delle vittime vede prevalere nel 2008 gli uomini sulle donne di oltre 70 punti percentuali (attestandosi i primi all'86,3% e al 13,8% le seconde), ma lo scarto di genere si riduce significativamente al Centro (66% le vittime uomini e 34% donne) e al Nord (rispettivamente 63,9% e 36,1%). Disaggregando i dati a livello regionale, gli uomini registrano un numero di vittime superiore a quello delle donne in quasi tutte le regioni italiane: fanno eccezione soltanto l'Umbria e il Molise, in cui prevalgono nel 2008 le vittime di sesso femminile (5 a fronte di 2 vittime tra gli uomini in Umbria e 2 contro nessuna vittima tra gli uomini in Molise). La regione che detiene il triste record dei femminicidi è la Lombardia (26, pari al 17,7% del totale), seguita dalla Toscana (15, pari al 10,2%), dalla Puglia (14, pari al 9,5%) e dall'Emilia Romagna (12 femminicidi, pari all'8,2%). In termini relativi sono però la Liguria, il Molise e l'Umbria a registrare il rischio più alto, rispettivamente con un indice di 1,3, 1,2 e 1,1 omicidi ogni 100 mila donne (la media nazionale è di 0,5 omicidi ogni 100 mila donne).
Riguardo all'ambito in cui si è consumato l'omicidio, il rapporto Eures-Ansa evidenzia che il 70,7% dei femminicidi è stato compiuto nel 2008 all'interno di contesti familiari (104 donne uccise, a fronte di 67 uomini), segnando tuttavia un leggero calo rispetto al 74% del 2006. Aumentano invece le donne vittime della criminalità comune (21 casi, pari al 14,3% delle vittime totali in questo ambito) e degli omicidi tra conoscenti (dal 4,4% del 2006 al 6,8%), mentre non si registra nel 2008 alcun femminicidio compiuto dalla criminalità organizzata (a fronte di tre casi del 2006 e di un caso nel 2007). Le donne più colpite sono le anziane (36 vittime, pari al 24,5% del totale), con numerosi omicidi di coppia o 'pietatis causa', ma il rischio è alto anche "nell'età feconda, in cui le donne sono uccise prevalentemente all'interno di rapporti di coppia, per ragioni passionali: il 21,8% delle vittime di sesso femminile ha infatti tra i 25 e i 34 anni (32 vittime)".

VIOLENZA DONNE:OMICIDI IN AUMENTO,AL NORD E IN FAMIGLIA
E' DONNA UNA VITTIMA SU 4. LA FOTOGRAFIA DEL FENOMENO IN ITALIA(ANSA) -
ROMA, 3 LUG - I 'femminicidi' hanno subito un ''incremento significativo'' nell'ultimo decennio: la maggioranza delle vittime restano gli uomini, ma le donne uccise sono passate dal 15,3% del totale nel periodo 1992-'94 al 23,8% del biennio 2007-2008. E' quanto si ricava dall'ultimo rapporto Eures-Ansa su ''L'omicidio volontario in Italia''. Secondo il rapporto resta una ''forte prevalenza delle vittime di sesso maschile'' (che nell'ultimo biennio in esame rappresentano il 76,2% del totale), ma l'aumento dei femminicidi e' un dato di fatto ''riconducibile - si legge nella ricerca - al decremento degli omicidi della criminalita' organizzata (che colpisce quasi esclusivamente gli uomini) accompagnato da una progressiva maggiore incidenza dei delitti in famiglia (all'interno dei quali le principali vittime sono donne)''. Se ci si ferma all'ultimo anno disponibile, il 2008, si osserva che la vittima e' una donna in un caso su 4 (il 24,1%. Ma, in percentuale, l'anno peggiore dell'ultimo decennio e' stato il 2006: le donne uccise furono 181, pari al 29,4%). Ed e' il Nord, ''dove sono piu' frequenti gli omicidi in famiglia'', a registrare la quota prevalente delle vittime di sesso femminile - 70, pari al 47,6% delle 147 uccise nel 2008 in Italia - a fronte del 29,9% al Sud (44 vittime) e del 22,4% al Centro (33 vittime). Al Sud la distribuzione delle vittime vede prevalere nel 2008 gli uomini sulle donne di oltre 70 punti percentuali (attestandosi i primi all'86,3% e al 13,8% le seconde), ma lo scarto di genere si riduce significativamente al Centro (66% le vittime uomini e 34% donne) e al Nord (rispettivamente 63,9% e 36,1%). Disaggregando i dati a livello regionale, gli uomini registrano un numero di vittime superiore a quello delle donne in quasi tutte le regioni italiane: fanno eccezione soltanto l'Umbria e il Molise, in cui prevalgono nel 2008 le vittime di sesso femminile (5 a fronte di 2 vittime tra gli uomini in Umbria e 2 contro nessuna vittima tra gli uomini in Molise). La regione che detiene il triste record dei femminicidi e' la Lombardia (26, pari al 17,7% del totale), seguita dalla Toscana (15, pari al 10,2%), dalla Puglia (14, pari al 9,5%) e dall'Emilia Romagna (12 femminicidi, pari all'8,2%). In termini relativi sono pero' la Liguria, il Molise e l'Umbria a registrare il rischio piu' alto, rispettivamente con un indice di 1,3, 1,2 e 1,1 omicidi ogni 100 mila donne (la media nazionale e' di 0,5 omicidi ogni 100 mila donne). Riguardo all'ambito in cui si e' consumato l'omicidio, il rapporto Eures-Ansa evidenzia che il 70,7% dei femminicidi e' stato compiuto nel 2008 all'interno di contesti familiari (104 donne uccise, a fronte di 67 uomini), segnando tuttavia un leggero calo rispetto al 74% del 2006. Aumentano invece le donne vittime della criminalita' comune (21 casi, pari al 14,3% delle vittime totali in questo ambito) e degli omicidi tra conoscenti (dal 4,4% del 2006 al 6,8%), mentre non si registra nel 2008 alcun femminicidio compiuto dalla criminalita' organizzata (a fronte di tre casi del 2006 e di un caso nel 2007). Le donne piu' colpite sono le anziane (36 vittime, pari al 24,5% del totale), con numerosi omicidi di coppia o 'pietatis causa', ma il rischio e' alto anche ''nell'eta' feconda, in cui le donne sono uccise prevalentemente all'interno di rapporti di coppia, per ragioni passionali: il 21,8% delle vittime di sesso femminile ha infatti tra i 25 e i 34 anni (32 vittime)''. (ANSA).