FEMMINICIDIO

martedì 16 settembre 2008

Sicurezza e violenza sulle donne

La repressione dell’altro non può passare attraverso il corpo delle donne.


Gli ultimi fatti di cronaca ce lo confermano: la ricerca di consenso passa anche attraverso il corpo delle donne. La rappresentazione distorta offerta dalle principali testate giornalistiche, l’interesse morboso per il mostro straniero sbattuto in prima pagina, non si può ridurre soltanto ad un problema di stereotipi, che pure permea abbondantemente i media italiani, ma indubbiamente copre una più ampia operazione di consenso, che vorrebbe individuare nel diritto delle donne ad una vita libera dalla violenza, come già fu per quelle afgane ad una vita libera dal velo, le ragioni di una “guerra giusta” contro i migranti, gli “irregolari”, i lavavetri, l’altro: dunque, l’ennesimo problema connesso alla sicurezza, alla legalità cofferatianamente intesa. Le donne non ci stanno: a più riprese hanno gridato il loro no deciso, per impedire l’ennesima strumentalizzazione del corpo delle donne come luogo di conflitto, di tutela, di riscrittura di regole di sconfinamento ed esclusione. Far percepire all’opinione pubblica il problema della violenza sulle donne come un problema di insicurezza, connesso al degrado ed alla illegalità, al rischio di stupro da parte di persone che “non hanno nulla da perdere”, implica compiere una operazione doppiamente falsa: non solo si nega la realtà dei dati, che vuole la famiglia come il luogo più insicuro per le donne per il numero di violenze agite dai maschi “intimi” (padri, mariti, ex) in tale contesto, ma si coglie anche l’occasione per spostare l’attenzione dalla necessità di un intervento strutturato, volto a consentire l’effettiva ed immediata tutela delle donne che vogliono uscire da situazioni di violenza, e ad incidere profondamente sul tessuto sociale, culturale, ed istituzionale, per eradicare le prassi discriminatorie, per convenire piuttosto ad una soluzione legislativa di stampo emergenzialistico e meramente repressivo, che rimanda un’immagine maschile di una donna bisognosa di protezione e controllo.Il tentativo in atto è gravissimo a livello di principio, per questo prontamente contrastato dalle donne: sulla base di una concezione distorta di legalità, patriarcale e paternalistica, si declassa la violenza degli uomini (tutti, la violenza non ha passaporto) sulle donne ad un problema di “ordine pubblico”, che non riguarda i nostri uomini ma sempre “l’altro”, negandone la matrice culturale patriarcale sessista, dunque negando la necessità di una profonda modifica nelle relazioni tra i generi.La negazione della soggettività e della autodeterminazione delle donne, viene usata come arma a doppio taglio per negare non solo l’ accoglienza, ma anche la presenza stessa in Italia di clandestini e non, con il duplice risultato di porre in essere politiche discriminatorie nei confronti dei migranti, ma anche politiche di genere “protezionistiche”, ed in quanto tali riproduttive di quegli stereotipi che nei secoli hanno voluto la donna oggetto di tutela / protezione / controllo e non soggetto autodeterminato la cui dignità, senza se e senza ma, sempre e comunque, va rispettata, anche dalle istituzioni.Questa deriva securitaria, o il suo politicamente incauto tentativo, avviene nonostante il Comitato per l’applicazione della CEDAW già dal 2005 sottolinei che “alcuni gruppi di donne, tra cui le ROM e le immigrate, si trovano costrette in una posizione vulnerabile ed emarginata, specialmente per quanto riguarda l’istruzione, l’impiego, la salute e la partecipazione alla vita pubblica e ai processi decisionali”, e richiede che vengano poste in essere “misure concrete per l’eliminazione della discriminazione contro quei gruppi di donne maggiormente vulnerabili, tra cui le ROM e le immigrate” per promuovere “il rispetto nei riguardi dei loro diritti umani con tutti i mezzi disponibili, comprese misure speciali temporanee”. Eppure il pacchetto sicurezza è in discussione, alcune delle sue parti stanno passando, assoggettando basilari garanzie di dignità previste dal nostro ordinamento a logiche securitarie o legalitarie, in una interpretazione inaccettabilmente restrittiva e deviante dei principi costituzionali, che nega un principio fondamentale del nostro ordinamento, quello espresso negli articoli 2 e 3 della Costituzione, il principio solidaristico, che la nostra Carta rivolge rivolto a vantaggio di tutti, cittadini e non, nell’ottica egualitaria ed inclusiva che Essa promuove. Crediamo che in un Paese dove la situazione è tale non si può e non si deve in alcun modo negare solidarietà, appartenenza, presenza, a nessuno, perché significa discriminare, incitare all’odio razziale, fomentare conflitti civili, tanto più se ciò è fatto in nome di una concezione astratta e fortemente discutibile di legalità e amor patrio.



Barbara Spinelli
Valentina Stamerra

PUBBLICATO SULLO SPECIALE DI CARTA DEL 25 NOVEMBRE 2007